No Borders, alla scoperta dei 27 / Germania

Germania «nemico pubblico» numero uno? Secondo alcuni sondaggi, per molte italiane e tanti italiani, il governo di Berlino sarebbe responsabile delle rigide regole europee. Altro che crauti: i tedeschi farebbero merenda con pane e austerità, secondo una percezione molto diffusa che vorrebbe convincerci di come la Germania decida e condizioni le politiche di altri 26 stati europei. Purtroppo, è molto difficile distinguere le competenze dell’Unione da quelle dei suoi Stati membri, districandosi tra i rivoli dei trattati firmati dai leader europei e poi ratificati dai loro parlamenti (o tramite referendum).

Fatto sta, però, che un fondo di verità potrebbe anche esserci.

Quanto «pesa» la Germania nell’UE

L’autorevolezza della voce del governo tedesco non è data solo dalla stabilità della sua economia – primo Paese contributore del bilancio UE – e delle sue istituzioni, che da Carta fondamentale escludono le crisi di governo «al buio». La Germania è anche il paese più popoloso dell’UE.

Pertanto, le spetta un numero maggiore di eurodeputati al Parlamento europeo (95, rispetto ai 79 francesi e ai 76 italiani), ma anche un pacchetto di voti maggiore per le decisioni che il Consiglio dell’UE assume a maggioranza qualificata, dove cioè gli Stati membri che appoggiano una proposta devono rappresentare almeno il 65% delle cittadine e dei cittadini europei.

Questa fotografia rispecchia il funzionamento dell’Unione europea a partire dal 2009, ovvero con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e con i ritocchi post-Brexit, in particolare sulla ripartizione dei seggi all’Europarlamento (di cui tuttavia proprio la Germania non ha beneficato).

Il numero di seggi al Parlamento europeo, le sedi di istituzioni e agenzie europee così come il sistema di voto per riconoscere la cosiddetta maggioranza qualificata in Consiglio sono solo alcuni dei principali scogli contro cui ha più volte urtato la riforma delle regole europee, prima di gettare l’ancora a Lisbona.

Uno scontro che – va detto – si è infiammato a partire dagli anni ’90.

Germania unita? Che paura!

Fino al 1989 sulla cartina geografica erano ancora disegnate due «Germanie»: a ovest, della Repubblica Federale, ad est della Repubblica Democratica, a far felice Giulio Andreotti, che dopo la Caduta del Muro di Berlino non mancò di commentare l’evento storico con una delle sue battute al vetriolo: «Amo talmente la Germania, da preferirne due…».

Sia come sia, nei primi anni ’90 la Comunità Europea ha dovuto affrontare un allargamento interno, perché quello che era considerato fino a poco tempo fa un paese terzo, d’un tratto si sarebbe seduto a tavola con la «ritrovata» famiglia europea.

Proprio la riunificazione della Germania, assieme alla possibilità di essere reintegrata nella comunità internazionale sono tra le due principali ragioni che hanno convinto il governo della Repubblica Federale Tedesca guidato da Konrad Adenauer a rispondere «presente» all’appello lanciato dal Ministro degli Esteri francese Robert Schuman, il 9 maggio 1950: dare avvio all’esperimento dell’integrazione europea attraverso una prima messa in comune della produzione di carbone e acciaio.

Erano gli anni del Dopoguerra, quando da ricostruire non erano soltanto le città bombardate durante il conflitto, ma anche la fiducia tra Stati e tra cittadine e cittadini di nazionalità differenti. Non c’era da sorprendersi se un cittadino belga o una cittadina francese avessero paura dei tedeschi, un sentimento – forse anche ancestrale – che però ha accompagnato tutte le fasi politicamente più delicate del processo di integrazione.

Ad esempio, il tentativo fallito della Comunità Europea di Difesa, ovvero di applicare il metodo sperimentato dalla Comunità Europea del Carbone dell’Acciaio anche per gli eserciti, nasceva proprio dalla necessità di «europeizzare» il riarmo della Germania.

Germania/UE: una storia di concessioni reciproche

Il Trattato di Maastricht del 1992, che ha battezzato le Comunità in Unione Europea, nasceva con l’obiettivo politico di rendere ancora più approfondite le relazioni tra i Paesi membri, per evitare un nuovo revanscismo della Germania riunificata.

Quale modo migliore, quindi, se non attraverso il conio di una moneta unica, al posto delle singole valute nazionali, simbolo per antonomasia della sovranità di un governo sul suo territorio? A Maastricht si decise anche di adottare l’«Euro», entrato poi in circolazione dieci anni dopo, saldando l’amicizia e proseguendo l’integrazione, non per sovrapporre gli interessi nazionali, ma per fonderli assieme in un progetto comune europeo.

Se però la Germania ha rinunciato al suo Marco, gli altri stati europei hanno dovuto impegnarsi a garantire il rispetto di vincoli e condizioni economiche, perché la moneta unica potesse rappresentare uno strumento di stabilità finanziaria e non una falla per la delicata costruzione europea.

La storia del processo di integrazione europea dall’osservatorio tedesco è ricca di altri aneddoti, così come di ambiziose scommesse politiche, prima ancora che economiche. Basterebbe però comprendere le rinunce del Governo di Berlino, per rivalutare in seconda istanza le sue richieste.

Magari nessuno ne uscirebbe assolto, ma forse si apprezzerebbe di più (e meglio) quanto difficilmente conquistato in 76 anni di pace, benessere e prosperità. Mica male. 

Paolo Cantore