L’Italia è il Paese dell’anno.
Riavvolgendo il nastro di questo 2021 – ormai in dirittura d’arrivo – forse l’abbiamo pensato un po’ tutti in fin dei conti.
Il successo planetario dei Måneskin, le vittorie agli Europei di calcio e pallavolo, il record di medaglie olimpiche e paralimpiche conquistate a Tokyo e – non da ultimo – il Premio Nobel per la Fisica assegnato a Giorgio Parisi sono soltanto alcuni dei momenti che hanno colorato di azzurro tante notti tornate finalmente ad essere “magiche”.
Ma non si tratta solo di chiacchiere da bar o di patriottismo in infradito. Ad incoronare l’Italia come Paese dell’anno è stato anche il settimanale inglese The Economist e le ragioni prescindono decisamente da questi pur straordinari successi. La pandemia di Covid-19 ha fatto sprofondare ogni angolo del mondo in una crisi sociosanitaria senza precedenti nella storia dell’umanità: l’oscuro e incerto evolversi della situazione ha condizionato fortemente gli ultimi 12 mesi dell’Italia, uno dei Paesi europei maggiormente falcidiati dal coronavirus.
Ciononostante, le colonne del The Economist applaudono alla resilienza mostrata dallo Stivale dinanzi all’emergenza sanitaria e all’artefice di un processo di riassetto politico ben presto arrivato a riguardare il rapido sviluppo di una campagna vaccinale da molti ritenuta virtuosa.
L’uomo in questione è il Presidente del Consiglio Mario Draghi, “competente e rispettato a livello internazionale” secondo la definizione dei giornalisti d’oltremanica e in grado di stilare assieme ad una maggioranza mai così eterogenea il PNRR, ossia quell’insieme di riforme necessarie all’ottenimento dei fondi previsti dal Next Generation EU.
Se da un lato l’Italia sembra rivolgersi all’Unione europea con un’inedita speranza e numerose aspettative, specie sotto il profilo economico, dall’altro pare essere la stessa UE a chiedere all’Italia di tornare protagonista dopo anni in cui l’euroscetticismo ha rappresentato un fil rouge tanto sottile quanto onnipresente nella dialettica politica nazionale.
Ma insomma, perché mai dovrebbe chiedercelo (davvero) l’Europa?
Una prima motivazione di natura storica risiede nel ruolo fondamentale che il nostro Paese ha sempre ricoperto nello scacchiere europeo: l’Italia è infatti uno dei sei Stati fondatori dell’attuale Unione Europea e nel marzo 1957 fu sede della firma dei trattati definiti a tal proposito “di Roma” con cui si diede origine alla Comunità Economica Europea (CEE), primo embrione di un’UE che assunse la forma definitiva solo col Trattato di Maastricht del 1992.
I Trattati di Roma danno vita anche all’Assemblea parlamentare europea, poi divenuta l’odierno Parlamento Europeo. Tra i componenti del primo PE votato democraticamente nel 1979 in tutti gli Stati membri figurava anche Altiero Spinelli, eletto tra le fila socialiste.
Andando a ritroso con la memoria, il nome di Spinelli ci riporta al 1941, l’anno della pubblicazione del Manifesto di Ventotene “per un’Europa libera e unita”. Un documento prezioso, simbolo della resistenza alla guerra e agli orrori del totalitarismo, nato dalla capacità (tutta italiana) di Eugenio Colorni, Ernesto Rossi e, appunto, Altiero Spinelli di immaginare un futuro di pace e di unità per il Vecchio Continente.
La seconda motivazione assume una natura prettamente tecnica o, per meglio dire, economica. Dopo Francia e Germania, l’Italia è il 3° Paese dell’Unione in quanto a popolazione, rappresentanza parlamentare e incidenza sul PIL europeo. Quando il progetto della moneta unica stava per decollare, l’Italia fu annoverata assieme a Portogallo, Grecia e Spagna con l’acronimo assai poco elegante di “pigs”, a indicare quegli Stati mediterranei economicamente poco affini ai Paesi dell’Europa centrosettentrionale.
Nel 1999 l’Italia aderisce all’Euro sulla spinta del governo guidato da Romano Prodi, tra i principali leader europeisti della nostra Repubblica e, in seguito, nominato Presidente della Commissione Europea dal 1999 al 2004.
Nella storia recente dell’UE numerosi sono stati i ruoli di spicco assegnati ad italiani: nell’attuale Parlamento presieduto da David Maria Sassoli è presente anche il suo predecessore Antonio Tajani (già Commissario), in carica dal 2017 al 2019. In quello stesso anno Federica Mogherini ha portato a termine l’incarico di Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, intrapreso nel 2014, mentre Mario Draghi ha concluso la sua presidenza della BCE cominciata otto anni prima, nel 2011.
Lo stretto rapporto tra Roma e Bruxelles è testimoniato anche dalle parole di stima pronunciate dalla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen: “grazie alla solidarietà europea e alla capacità dell’Italia di gestire efficacemente la pandemia, l’economia italiana sta crescendo più in fretta che in qualunque altro momento dall’inizio di questo secolo“. Un’affermazione, questa, ripresa anche dal già citato articolo del The Economist secondo il quale “a causa della pessima attività dei vari governi, nel 2019 gli italiani erano più poveri di quanto non lo fossero nel 2000”.
Von der Leyen esprime, però, un concetto ancor più importante perché colmo di quel desiderio di un rinnovato protagonismo italiano in ambito europeo che ci ha portato a interrogarci sul perché all’Europa importi poi così tanto dello stato di salute del nostro Paese e, soprattutto, della nostra economia.
Sciorinare i dati relativi al Next Generation EU, il fondo da oltre 750 miliardi di euro stanziato dalla Commissione per la ripresa dalla pandemia, potrebbe essere non del tutto esaustivo ai fini del nostro ragionamento. Intendiamoci, va detto che la fetta più grande di questo pacchetto senza eguali nella storia europea è spettata proprio all’Italia con circa 209 miliardi ripartiti tra sovvenzioni (81) e prestiti (128) e c’è anche da dire, sempre per dovere di cronaca, che così come tutti i Paesi beneficiari del Recovery Fund dovranno contribuire alla restituzione dei 390 miliardi stanziati a fondo perduto, l’Italia parteciperà per il 17% del totale con un netto finale “gratis” di circa 35 miliardi.
Ma il punto è un altro, ed arriviamo così alla terza ed ultima motivazione: la parola chiave è opportunità.
In Germania Olaf Scholz ha da poco rilevato il cancellierato di Angela Merkel che durava dal 2005, un’eternità se pensiamo che nello stesso periodo di tempo a Palazzo Chigi si sono susseguiti ben 9 Premier diversi! In Francia, invece, il Presidente Emmanuel Macron ha il mandato in scadenza nella primavera del 2022 e dunque, a breve, dovrà dire adieu all’Eliseo.
Le situazioni tutto sommato affini di Berlino e Parigi lasciano intravedere all’orizzonte un periodo di transizione per i due Paesi che, per quanto fisiologico, rischia di intaccare anche la stabilità dell’Unione europea in considerazione del rispettivo peso specifico.
Ecco dunque affiorare l’opportunità storica per l’Italia di inserirsi perfettamente in un vulnus che a breve potrebbe diventare ingombrante, una chance indubbiamente da non perdere anche per l’Europa, specie se a guidare quella che – per adesso – è la terza forza dell’UE c’è (e ci sarà ancora, chi lo sa) un profilo come quello di Mario Draghi: se a Londra riconoscono l’Italia di oggi “un paese migliore rispetto a dicembre dell’anno scorso”, parte del merito è senz’altro suo e anche l’Europa pare essersene accorta.
“E non c'è vento che fermi | la naturale potenza | dal punto giusto di vista | del vento senti l'ebrezza| con ali in cera alla schiena | ricercherò quell'altezza”.
Dopo anni difficili, l’Italia sembra finalmente in grado di tornare a sollevarsi in volo verso orizzonti per troppi anni apparsi irraggiungibili eppure, mai come adesso, alla portata di un Paese come il nostro, tra i principali artefici di quel sogno chiamato Europa che le acque cristalline di Ventotene riverberavano negli occhi dei primi padri fondatori nel grigiore del loro esilio.
Insomma, di stare “zitti e buoni” non ne possiamo più!
Simone Matteis