CineSpecial – Il leone del deserto

Regia di Mustafa Akkad, Libia, 1981, 171’

Anni ’30, XX secolo: il governo fascista italiano auspica la rinascita dell’Impero romano in terra d’Africa e, parallelamente, la Libia è impegnata a respingere l’invasione italiana in un jihad ventennale, che ha avuto inizio nel 1911.

Il film comincia con Benito Mussolini (Rod Steiger) che nomina il generale Rodolfo Graziani (Oliver Reed) capo della colonia di Libia, e a lui spetta il compito di porre fine a una resistenza che dura, ormai, da troppo tempo: è la resistenza dei popoli che vivono le terre dell’Africa settentrionale che, ormai più di cent’anni fa, erano le province ottomane di Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. E’ la resistenza della confraternita Senussita, una componente mistica all’interno dell’Islam, a cui fa capo il saggio insegnante e guerrigliero Omar al-Mukthar (Anthony Quinn).

Una delle strategie del Regio Esercito, come si vede nello sviluppo del film, consiste nella deportazione dei locali in “un reticolato di 270 chilometri di filo spinato lungo il confine, costantemente presidiato dalle truppe italiane”, alle quali Oman al-Mukthar oppone un esercito fatto di civili che impiega in azioni di guerriglia. Mukthar è il personaggio epico, l’eroe della pellicola, che dedica larga parte della sua vita alla lotta anti-imperialista in nome dell’identità del suo popolo. Tuttavia, malgrado il valore e l’eroismo dei cavalieri e combattenti arabi e berberi al suo seguito, le perdite e le efferatezze che i libici subiranno da parte delle Camicie Nere saranno gravi e atroci, e ne determineranno la lenta sconfitta.

Il leone del deserto è un chiaro film cult dell’epica, dell’eroismo, del patriottismo libico.

Censurato per largo periodo in quanto, secondo Andreotti, era considerato “lesivo all’onore dell’Esercito italiano”, fu trasmesso, in Italia, sui canali Sky solamente nel 2009.

E ora che abbiamo una televisione un po’ più libera, possiamo fare delle considerazioni, cominciando proprio dalla parola “resistenza”, che in arabo si traduce con jihad. Quindi, jihad non significa affatto “guerra santa”, come la pubblicistica ci ha insegnato, bensì “resistenza”, “impegno”, “ribellione”. In questo contesto cinematografico, una confraternita religiosa musulmana prende una piega islamica in chiave anti-colonialista e così esercita il suo jihad, all’inizio nel 1911, anno della prima espansione del governo Giolitti, poi nel 1922, durante la cosiddetta “Riconquista” (ricordiamo che la Libia faceva parte del glorioso Impero romano) che avrà termine solo nel 1931, anno della piena annessione all’Impero italiano. Nonostante i carri armati e l’esercito addestrato, ci vorrà un po’ prima che gli arabi che “credono di poter combattere a cavallo contro le armi moderne” arretrino completamente.

Un film molto interessante di chiara matrice holliwoodiana che non ammette visioni semplicistiche in cui il deserto non è meramente “carta marrone” – secondo una definizione di Mussolini – ma il teatro di lotta e di resistenza da parte di un popolo che non ha intenzione di rinunciare alle sue origini e alla sua cultura; una complessità che non è ammessa, però, tra le cose “moderne” e “sviluppate”. Basti pensare che questa smania di terre e potere, per una semplice categorizzazione che nega ogni particolarità umana, è costata alla Libia centomila morti in vent’anni (fonte: journals.openedition.org, 2015).

Vengono chiamati “banditi”, “beduini”, “ribelli” e riecheggia la frase:  “un giorno di un uomo a Roma vale più di una generazione in Libia”; film come questo servono a raccontare un’altra verità, una più onesta.

Ne Il leone del deserto, un arabo, Omar al-Mukthar è un eroe, è il portavoce di un popolo che ha una storia, un bagaglio culturale, dei miti e dei rituali ancora vivi nella memoria che non degenerano in forme grottesche di superstizione.

Il contesto di produzione ci aiuta a interpretare la rappresentazione, aiutandoci ad inquadrare il punto di vista del regista che traspare, ad esempio, nelle scene di tortura, in cui la macchina da presa affianca la vittima in un gesto quasi di solidarietà.

Akkad sceglie di rappresentare la resistenza dal punto di vista dei protagonisti di essa e, per forza di cose, il “noi” è rappresentato dal popolo arabo, stavolta in una chiara contestualizzazione storica, con l’utilizzo di una gamma di emozioni molto complessa e la ricorrenza del dettaglio, per una ricostruzione fedele. Il “noi” ha maggiore profondità, ha più tratti umani rispetto al “loro”, che sono gli italiani. Persino quando traspare dell’umanità in loro, questa è per enfatizzare la crudeltà della repressione.

Un altro aspetto degno di nota: la rappresentazione della figura femminile. La donna araba è nettamente distinta da quella italiana: la prima, profonda e impavida, si contrappone alla seconda, civettuola e superficiale.

Si nota, inoltre, se si vuol vedere la versione originale in inglese, come la lingua sia naturale e senza il bisogno di accentuare cadenze e stereotipi.il concetto di potere e la forza della resistenza sono messi a confronto, secondo convenzioni che il regista ha saputo perfettamente raccontare, mostrando notevole abilità di mediazione nel filtrare gli elementi, in grado di avvicinare il fruitore alla sua rappresentazione dei fatti e capace di trasmettere un discorso universale a partire da eventi realmente accaduti.

Jessica Noli