Regia di Amer Shomali e Paul Cowan, Palestina-Canada, 2014, 75’
“The Wanted 18: a tale of talking cows and Palestinian rebellion”: così il giornale The Guardian (fonte: The Guardian, 22 marzo 2015) ha titolato l’intervista al regista Amer Shomali che, in un mix di fumetto, animazione, fiction e documentario, ci racconta la prima Intifada, la ribellione dei palestinesi contro la colonizzazione israeliana, che ha inizio nel 1987 e termina nel 1993, con gli accordi di Oslo.
Partendo da un boicottaggio delle merci e delle tasse israeliane, i residenti di Beit Sahour – un villaggio non distante da Betlemme – fondano una comune e decidono di non rifornirsi più dal latte importato da Israele per provare la propria indipendenza, concretizzando una resistenza all’occupazione. Per questo scopo vengono acquistate diciotto mucche da un kibbutz israeliano, lo stesso che insegnerà agli abitanti di Beith Sahour a badare al bestiame e a mungere. Il moto reazionario prende piede velocemente e l’ “Intifada milk” diventa un esempio, il “brand” della protesta. Israele, nel tentativo di metter fine alla ribellione, mette al bando le “18 ricercate”: spostate di nascondiglio in nascondiglio, le mucche “assurgono allo status di minaccia per la sicurezza dello stato di Israele”, come la stessa critica del film dichiarerà in una delle sue interpretazioni (fonte: Il Manifesto, 26.10.2017).
Figlio di palestinesi e cresciuto in un campo di rifugiati in Siria, il regista, che all’epoca era ancora un bambino, vive la prima Intifada attraverso la televisione e i racconti delle epiche gesta di Beit Sahour. Lo respira come un luogo paradisiaco in cui un ragazzo del villaggio viene addirittura mandato negli Stati Uniti per imparare a mungere e in cui la nascita di un vitellino viene festeggiata come quella di un neonato. In più, il punto di vista delle mucche ci regala quel pizzico di umorismo che, secondo Shomali, è “una disobbedienza non violenta”. I registi Shomali e Cowan intendono, infatti, regalarci un punto di vista originale in modo tale che lo spettatore simpatizzi con il soggetto senza esserne troppo influenzato. Sono anche le mucche, quindi, che ci raccontano la resistenza pacifica in una Palestina in cui non c’è stata decolonizzazione.
L’identità palestinese si afferma soprattutto attraverso il suo contrario, l’Israele, che è una presenza da osteggiare e, in questo caso, da boicottare, partendo dai simboli di lotta che, fortemente presenti, si manifestano contro le pratiche di emancipazione, disobbedienza civile e senso di comunità.
Una commistione di generi – si spazia dall’intervista, al documentario, al fumetto, alla pantomima – che filtrano il discorso e ne mappano gli elementi in linea temporale. In altre parole, The Wanted 18 è il filtro della memoria, parte integrante dell’identità palestinese: memoria come luogo idilliaco e paradisiaco – la Palestina perduta – in contrapposizione con lo spazio reale del ritorno dei profughi. La stessa memoria può essere interpretata come atto di resistenza: la mescolanza delle tecniche narrative è un filtro netto che ci racconta gli eventi chiave partendo da testimonianze reali dei “mediatori della memoria”: Jalal Oumsieh, un insegnante di scuola superiore, acquirente delle 18 vacche; Jad Ishad, professore di geologia; Elias Rishmawi, un farmacista; e la macellaia, Virginia Saad. Intervengono anche i punti di vista della fazione opposta, come i due membri del governo israeliano e i soldati Shaltiel Lavie (l’allora governatore militare della regione) e Ehud Zrahiya (il consigliere degli Affari Arabi).
Un film politico dalla narrazione leggera, articolato in un discorso di resistenza legato a simboli, personalità e topoi comuni: il ritorno e la memoria. Una storia che ci racconta di un’indipendenza e di soluzioni ancora possibili.
Jessica Noli