L’Esercito delle 12 Scimmie (QUI il trailer) è una di quelle pellicole che a distanza di anni ti spiazzano e ti lasciano un segno. Ma andiamo con ordine. Corre l’anno 2035, la razza umana è stata spazzata via da una pandemia che ha inesorabilmente eliminato il 99% della popolazione mondiale, riportando il totale controllo della superficie terrestre ad una flora e una fauna selvagge ed ostili per i pochissimi sopravvissuti, costretti a vivere sottoterra per evitare ulteriori contagi.
All’ergastolano James Cole (Bruce Willis) l’ingrato compito di tornare indietro nel tempo per raccogliere informazioni sul virus e su “Le 12 Scimmie”, l’ organizzazione che ha pianificato l’apocalisse ecologica. L’esito positivo della missione permetterà di elaborare un antidoto e per James di ottenere la grazia. Pur essendo Cole ritenuto il più qualificato per questo compito, le difficoltà e il serio rischio di lasciarci la pelle o di impazzire sono dietro l’angolo; un aiuto inaspettato sarà l’incontro con una psichiatra, la dottoressa Kathryn Railly (Madeleine Stowe). Ed è in una clinica che strizza l’occhio ad Alcatraz (o ad Arkham), che la partita a scacchi tra tempo e realtà allucinata può iniziare.
Possiamo cambiare il nostro destino a partire dai deliri dell’oggi?
Il regista Terry Gilliam porta argomenti convincenti in tema di apocalissi e fini del mondo, terreno fertile per produzioni (non solo) statunitensi successive (Independence Day, Armageddon, 28 Giorni Dopo, solo per citarne qualcuno). Da buon ex Monty Phyton, Gilliam non nasconde il sottile filo rosso sotteso lungo gli eventi e le atmosfere che li connotano: il rapporto con la follia, il suo permeare la natura umana nelle sue apparenti coerenze e risoluzioni.
La storia è costantemente (e sottolineo, costantemente) focalizzata su un equilibrio precario dove tutti sono coinvolti, personaggi e spettatori. Equilibrio dove il dramma e la violenza fredda delle atmosfere glaciali e asettiche della clinica psichiatrica dove Cole è internato si mescolano al grottesco e al disagio, manifestato anche nelle scene all’aperto o nelle claustrofobiche location dalla cromia aggressiva e malata come il teatro sotterraneo abbandonato.
Il virus è quindi il pretesto per dire altro, descrivere una condizione umana di malattia e delirio ben sintetizzata nell’ istrionico, delirante e profetico monologo di un Brad Pitt in formissima, qui nei panni dello schizofrenico attivista Jeffrey, figlio del virologo Leland Goines. Niente di nuovo sotto il sole, quindi? Determinismo storico che si scontra con l’affannosa ricerca del fattore X che ribalti le sorti del presente: basta una sola informazione, vitale. Eppure, Cole otterrà, si, la grazia; ma seguendo un protocollo parallelo a quello della sua missione, un tira e molla sfiancante e catartico, dove risolutive saranno la fiducia nelle sue intuizioni e la vicinanza sempre più profonda della dottoressa Railly.
Far emancipare un attore da comodi clichè: istruzioni per l’uso
Una bella prova per due attori come Willis e Pitt. Il primo sempre più alla ricerca di ruoli emancipati dalla fisicità e dalle esplosioni facili tipiche della Die Hard Trilogy, in cui imbattersi in nemesi come il fato e la morte, insidie invisibili (Unbreakable o Il Sesto Senso); il secondo, con risultati convincenti che lo hanno svincolato dallo status di semplice sex symbol made in Hollywood (Seven, Sette anni in Tibet, Fight Club, Babel… la lista è infinita). Del resto la storia cinematografica di questi due artisti ne ha confermato le sfide accettate, ancora oggi.
Tante le ispirazioni che Terry Gilliam ci regala in questo film imperdibile, a tratti fuori dagli schemi, pur mantenendo i contatti con l’universo Sci-Fi Pre/Post-Apocalittico. La visione è poi praticamente obbligata per chi è intenzionato a seguire il serial remake omonimo, datato 2015 (possiamo quindi tirare un sospiro di sollievo insieme a Cole)!
Insomma, possiamo ancora sperare. O almeno lo spero.
Aiuto! Sto entrando in un loop come quello del film!
Passo e chiudo.
Guglielmo Ercole De Simone