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Mi chiamo Francesco Totti e il viaggio dell’eroe

In uno sketch comico di pochi giorni fa, Valerio Lundini (QUI per il video completo) si è chiesto se sia possibile che esistano, nascosti tra i calciatori, attori che recitano così bene la parte del giocatore da essere scambiati per calciatori veri. Lasciando da parte il lato ironico e surreale della battuta, questa ci dà l’occasione per una constatazione: laddove un’operazione di imitazione sia davvero efficace, la differenza tra ciò che è vero e ciò che ne è la rappresentazione smette di esistere. Perfino un racconto con alcuni elementi di finzione, come un film per esempio, attraverso la forma del documentario può stabilire una realtà, fissarla nel tempo e renderla l’unica possibile da tramandare ai posteri. Mi chiamo Francesco Totti, di Alex Infascelli, è un film che sa così tanto di realtà, di quella realtà così vicina anche a noi che ne siamo stati testimoni, che abbatte le distanze tra verità e finzione, e che forgia per primo una biografia del suo protagonista: un calciatore che si finge attore, e che qui è la chiave dell’efficacia di tutta l’operazione.

“E pensare che la prima parola che ho detto è stata “palla””

La pellicola ripercorre l’intera carriera del numero Dieci della Roma, dagli esordi precocissimi fino all’addio al calcio di fronte a uno Stadio Olimpico in lacrime. Attraverso registrazioni di famiglia e filmati di repertorio assistiamo ai primi calci a un pallone del piccolo Totti, ai primi gol e ai primi falli subiti. Conosciamo questo ragazzo focalizzato sui suoi obiettivi e senza tanti grilli per la testa, innamorato del calcio e professionale nel praticarlo. Un alone di predestinazione permea tutta la narrazione, e la sequenza di successi e cadute appare come la naturale conseguenza di questo suo essere un eletto, un eroe sportivo moderno. Uno degli aspetti che rendono così valido questo film sta proprio qui, vediamolo.

Mi chiamo Francesco Totti, malgrado sia un atipico documentario, possiede una fortissima struttura di stampo narrativo. A ben vedere, essa si dipana secondo lo schema di quello che in narratologia viene chiamato “viaggio dell’eroe”, ovvero l’insieme delle tappe che ogni protagonista di una storia deve affrontare per risolvere il conflitto che lo muove. Lo sceneggiatore e teorico Christopher Vogler identifica dodici fasi attraverso le quali l’eroe deve necessariamente passare durante il racconto, e questa pellicola le rispetta quasi tutte. Di Totti ci viene illustrato il mondo, assistiamo alla sua chiamata all’avventura nella Roma, l’incontro con il mentore Mazzone e quindi la prima grande difficoltà, l’“attraversamento della prima soglia” rappresentato dall’allenatore a lui ostile, Carlos Bianchi. Seguono quindi tutte le prove che ne consolidano la figura, come lo Scudetto e il matrimonio con Ilary Blasi, nonché la difficoltà suprema, quella che Vogler chiama l’“avvicinamento alla caverna più profonda”. Totti si infortuna a pochi mesi dal Mondiale del 2006, e la sua caparbietà lo porterà non solo a non abbattersi e a parteciparvi, ma a essere artefice importante del trionfo degli Azzurri. È nell’ultima parte del racconto però che il film matura la sua vera chiave di lettura.

“Io n’ce credo che finisco”

Da cosa è caratterizzato un eroe? Lo abbiamo detto prima: da un conflitto. E quale può essere il conflitto di un calciatore, di un atleta che fa del suo corpo la sua forza? È nell’ultimo segmento della pellicola che Totti fa i conti con il tempo, l’unico nemico che un giorno non potrà più battere.

Se il film è effettivamente un documentario, Infascelli riesce a mascherarlo da epopea epica e autobiografica proprio grazie al Dieci della Roma: Totti è la voce narrante, è colui che nelle sequenze di raccordo osserva uno Stadio Olimpico vuoto e si guarda indietro. È proprio Totti che racconta degli ultimi anni e dei conflitti interiori: del suo status d’icona che gli impedisce di vivere una vita pubblica normale, della sua voglia di giocare infinita e dell’orologio biologico che intanto ticchetta, trascinandolo riluttante agli sgoccioli della carriera. Ma è proprio il soccombere dell’atleta Totti che fa vincere l’eroe Totti: la fine della sua vita calcistica corrisponde alla presa di coscienza che la sua battaglia è stata sempre, prima che quella sul campo, quella combattuta per strappare un’emozione alle persone. È nell’Olimpico che gronda di pianti che il viaggio dell’eroe si conclude e il conflitto si scioglie.

“Il destino lo capisci solo alla fine, finché non lo vivi nun ce pensi neanche al destino, no?”

Chi vi scrive è un romanista atipico, giallorosso per caso, nato e vissuto lontano da Roma, che in nulla ha mai vissuto la romanità e l’attaccamento alla squadra come un autoctono. Potete quindi immaginare la sua commozione nello scoprire che all’interno di questo film c’è l’1-0 di Totti sul Bologna dell’1 ottobre 2000, ovvero l’unica partita della Roma da lui mai vista dal vivo. La potenza di Totti, e quindi di questa pellicola, a ben vedere sta proprio qui: tutti, in misura maggiore o minore, siamo partecipi di quanto di lui ci viene raccontato, e il più delle volte la nostra partecipazione non è semplicemente legata alla memoria delle sue azioni, bensì all’emozione che esse hanno scaturito in noi. Mi chiamo Francesco Totti è un film riuscitissimo perché sfrutta questa sintonia, la disvela e attraverso un vero e proprio processo di mitopoiesi scolpisce il ritratto definitivo del suo protagonista. Erculeo, oggetto di emulazione ma al contempo inimitabile, talvolta fallibile eppure sempre, in tutto e per tutto, iconico e portatore di significati che vanno aldilà non solo della sua figura, ma dello sport stesso. Totti non è della Roma: è di tutti, a suo modo è un eroe moderno che al chiudersi del sipario, come un attore, si prende la sua dose di scroscianti applausi.

Nicola Carmignani