Parthenope: piccola recensione (no spoiler!) sul nuovo film di Paolo Sorrentino

Finalmente, dopo una lunga attesa iniziata a maggio al Festival di Cannes e alimentata a settembre da un inusuale programma di anteprime a mezzanotte in alcune città, l’ultima fatica di Paolo Sorrentino torna nelle sale italiane il 24 ottobre, stavolta per restarci più a lungo e in molti più cinema.

Chi vi scrive ha avuto la fortuna di assistere a una di queste proiezioni speciali (senza addormentarsi!) e ora è qui a esporre i suoi two cents su un film che promette discussioni.

Lo svolgersi di una vita in una Napoli romanizzata

Parthenope si presenta come una sintesi tra La grande bellezza ed È stata la mano di Dio. Come il secondo, anche questo film ha dei caratteri del romanzo di formazione: seguiamo l’avvenente protagonista Parthenope (Celeste Dalla Porta) nello svolgersi della sua vita, a partire da alcune esperienze fondative vissute in gioventù che influenzeranno anche il suo futuro. Nello srotolarsi di questa vita  dagli anni Cinquanta ad oggi, assistiamo a tanti episodi più o meno probabili, frammenti sgargianti che si avvicendano sul grande schermo mostrando una Napoli quantomai romanizzata

Una Napoli, cioè, che ricorda tanto la Roma della Grande Bellezza: una Napoli ritratta nelle sue contraddizioni e soprattutto nelle sue decadenze, nel suo marciume (penso al Cardinale, penso al grottesco personaggio di Luisa Ranieri, il cui sex appeal di È stata la Mano di Dio viene ribaltato in un amaro gioco parodico).

Le sequenze sono cariche ed esagerate, a volte oniriche alla Fellini, altre volte decisamente eccessive, ma il carosello che ne esce è comunque attraente e irresistibile, un capolavoro estetico che tiene incollati – e non era scontato, alle due di notte al cinema.

Parthenope: un personaggio malinconico ma solo abbozzato

Il problema vero riguarda proprio lei, l’ammaliante Parthenope. Parthenope è bella, intelligente, affascinante e misteriosa. Questo in teoria. In pratica Parthenope è sì un incanto estetico, ma la sua intelligenza è ridotta a “frasi a effetto” (come dice il personaggio di Dario Aita) e tutto il suo fascino e il suo mistero si perdono dietro a un personaggio che di fatto è solo abbozzato. La questione è che Parthenope non agisce, o agisce poco, in maniera non incisiva, e finisce per diventare una malinconica spettatrice della sua stessa vita.

Di Parthenope intuiamo i drammi interiori, che le causano sofferenza e la condizionano; ma siamo ben lontani da quell’urlo liberatorio di Fabietto in È stata la mano di Dio o da quel sopracciglio alzato per lo scetticismo e la disillusione di Jep Gambardella nella Grande Bellezza. Parthenope insomma è trattata come una divinità (da notare che non ha nemmeno una marca dell’accento napoletano che ci si attendeva da colei che porta il nome della sua città), ma forse l’avremmo preferita più umana e capace di agire e reagire. A maggior ragione perché, senza spoiler, di potenziali conflitti ce ne sono tanti, a partire da quelle esperienze fondative giovanili che, pur brevissime, sono folgoranti e commoventi (quel ballo incorniciato da Cocciante è una delle scene migliori del film).

L’allieva (non) supera il maestro

Il personaggio meglio riuscito è quello di Silvio Orlando, il saggio professore di Antropologia mentore di Parthenope, capace di momenti comici (“In università si viene già cagati e già pisciati”) e lirici. Il professor Marotta insegna a Parthenope a Vedere, l’attività che Parthenope abbraccia col suo sguardo carico di curiosità e nostalgia. Marotta ha un arco narrativo spiazzante e potrebbe entrare nel cuore più della protagonista. E questo però, per gli equilibri narrativi dell’opera, è ovviamente un problema.

Due ore di pura estetica sorrentiniana

I difetti quindi non mancano, ma è un film che lascia alcune cose a livello emotivo e che regala due ore piene di pura estetica sorrentiniana, bellissima ed eccessiva. Vi auguriamo una buona visione, fateci sapere i vostri pareri!

Emanuela Macci