Samurai ed esseri umani: centodieci anni di Akira Kurosawa

Facciamo un gioco: che cos’hanno in comune Per un pugno di dollari, Star Wars e A Bug’s Life? Vediamo un po’: Per un pugno di dollari ha trascinato Sergio Leone in una lunga causa per plagio, poi persa, nei confronti del film Yojinbo. George Lucas afferma da sempre che la trama e i personaggi del primo Star Wars sono ispirati al nipponico La fortezza nascosta. A Bug’s Life d’altro canto è un remake animato del western I magnifici sette, che però a sua volta è il remake dei Sette Samurai. Quindi, che cos’hanno in comune questi tre film? Nessuno di essi sarebbe mai esistito se non fosse per colui che è considerato il più grande e influente regista giapponese di sempre: Akira Kurosawa, l’Imperatore.

La formazione e gli esordi di Kurosawa

Oggi ricorrono esattamente 110 anni dalla nascita di Kurosawa, il 23 marzo del 1910. Di carattere timido e fragile, egli racconta nella sua autobiografia di dovere tutto ad alcune figure cardine della sua infanzia. Tra di esse, spicca il fratello maggiore Heigo. Heigo è cruciale nella formazione di Akira: è lui a iniziarlo al cinema, ed è sempre lui che togliendosi la vita, nel 1933, lo mette nella condizione di dover abbandonare il suo interesse per la pittura. Akira è costretto a cercare un lavoro, e lo trova come assistente di regia.
Da quel momento, Kurosawa comincia la sua gavetta nell’ambito del cinema, che lo porterà nel ‘43 al debutto come regista. Sanshiro Sugata è il primo dei trenta film che caratterizzeranno gli oltre cinquant’anni di carriera. La pellicola più importante dei suoi prolifici anni Quaranta è però L’angelo ubriaco. È qui che per interpretare un gangster ammalato in cerca di redenzione sceglie per la prima volta Toshiro Mifune, colui che diventerà per lungo tempo il suo attore-feticcio. Lo stesso Mifune sarà nel ‘50 il protagonista di Rashomon, il film che attraverso la vittoria al Festival di Venezia, spalancherà ad Akira, e al cinema giapponese in genere, le porte dell’Occidente. 

Una compilation di momenti di Toshiro Mifune

Il Kurosawa “classico”

È tra gli anni Cinquanta e Sessanta che Kurosawa gira alcune tra le sue pellicole più celebri: il suo stile epico e in bilico tra i generi viene molto apprezzato sia in patria che all’estero, e il suo amore per autori come John Ford, Shakespeare o Dostoevskij ne costruisce la fama di “più occidentale dei registi giapponesi”. Di questo periodo influentissimo possiamo citare il thriller procedurale Anatomia di un rapimento, il dramma esistenziale Vivere e soprattutto i suoi celeberrimi film in costume, come Il trono di sangue, La fortezza nascosta e Yojinbo, che mescolano in varia misura avventura, ironia e tragedia.

Vivere, in tutta la sua potenza lirica

Il film che più di tutti però assurge a manifesto del suo cinema è senza dubbio I sette samurai, del 1954. Questa vicenda di un gruppo di eroi spiantati che decide di difendere un villaggio da un gruppo di briganti, è sicuramente il primo film di Kurosawa da recuperare. Da una parte infatti è il contesto perfetto per mettere in scena la sua poetica umanista, poiché i numerosissimi personaggi consentono di essere indagati in ogni loro relazione, speranza e atto di solidarietà. D’altro canto, questa pellicola è probabilmente il massimo esempio della leggendaria capacità di Kurosawa di gestire il movimento. Masse di persone, intemperie, movimenti di camera… Nessuno spostamento è lasciato al caso e anzi viene valorizzato attraverso la regia e soprattutto al montaggio. Kurosawa è infatti un raro esempio di regista che si monta i film da sé, e ciò si riverbera nella coerenza visiva pazzesca dei suoi film, e in questo su tutti. 

L’accurata analisi del montatore Tony Zhou sul movimento nell’opera di Kurosawa

Il tardo Kurosawa

All’inizio dei Settanta Akira vive un momento di incertezza e insuccesso talmente gravi da spingerlo a tentare il suicidio, dal quale fortunatamente si salva. L’esperienza rappresenta un momento di cesura forte nella sua produzione: i film da ora in poi escono di rado, ma sono più che mai carichi di intimismo e introspezione. Kurosawa oltretutto approda finalmente al cinema a colori, dando sfogo a un’esuberanza cromatica finora rimasta solo negli studi di pre-produzione. Forte delle sue capacità pittoriche infatti. Akira era solito storyboardare personalmente ogni singola scena dei suoi film. Citiamo di questo periodo Ran, una terrificante rilettura del Re Lear, il drammatico Rapsodia in agosto, sull’eredità dei bombardamenti nucleari in Giappone, e soprattutto Sogni, un film a episodi basato proprio su alcune visioni oniriche del regista, ora allucinate e paurose, ora tenere e delicate, ma sempre e comunque intrise dell’umanesimo che lo ha sempre caratterizzato.

La “Visione dell’Inferno” in Ran

Kurosawa muore nel 1998, dopo aver influenzato per mezzo secolo registi da tutto il mondo. Coppola, Lumet, Kubrick… Sono in tantissimi che lo ricordano per il suo uso mai banale del movimento, per l’audace struttura delle sue trame o per i suoi iconici eroi morali. L’amico Martin Scorsese poi ne parla così:

“Il termine “gigante” viene troppo spesso utilizzato per descrivere gli artisti. Nel caso di Akira Kurosawa abbiamo uno dei rari esempi per i quali il termine è appropriato”.

L’episodio di Sogni in cui l’amico Scorsese interpreta Vincent Van Gogh

Nicola Carmignani