L’isolamento forzato cambierà molte cose: ci troveremo a riflettere su economia, società, politica, comunicazione. C’è però un tema che soggiace a tutto, e che tutti ci tocca profondamente: la percezione delle cose. È indubitabile che questa situazione ci stia spingendo a riconsiderare profondamente la percezione del mondo che ciascuno di noi ha sempre dato per scontata. In generale, ogni costrizione, ogni alterazione della libertà porta nodi al pettine, e modificare il proprio paradigma di giudizio è spesso necessario per poter superare una crisi. Nulla di inedito o speciale, chiaro, l’adattamento all’ambiente è il processo che in natura porta alla prosecuzione della specie. Ma in campo umano, nel 2020, tutto ciò come si applica? È evidente che a mani nude come individui e specie nulla possiamo rispetto a un mondo soverchiante. E quindi come lo attuiamo, questo cambio di percezione? Tramite le due più importanti conquiste della nostra specie: la tecnica e la sensibilità.Mi rendo conto: come introduzione per Le vite degli altri (QUI il trailer) di Florian Henckel von Donnersmark, questo paragrafo rischia di apparire piuttosto disorientante. Ma sospendete il giudizio per un attimo, venitemi dietro.
“1984, Berlino Est, la Glasnost è ancora lontana”
Gerd Wiesler, nome in codice ”HGW XX/7”, è un funzionario della Stasi, il famigerato Ministero per la Sicurezza dello Stato che, in quel 1984 in cui è ambientata la vicenda, tutto conosce nella Repubblica Democratica Tedesca (DDR). Vive in simbiosi con il partito, aderisce come un guanto alle sue ideologie e svolge il suo compito di controllore scrupolosamente e con freddezza. Tutto però comincia a scricchiolare nel momento in cui viene messo a spiare la vita privata del regista teatrale Georg Dreyman. Le motivazioni tutt’altro che politiche dell’indagine e la costante, silenziosa vicinanza a Dreyman e alla sua compagna scuotono le fondamenta delle sue convinzioni e mettono in moto la trama. Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck è una delle pellicole tedesche di maggior successo di sempre al di fuori della Germania. Vince nel 2006 l’Oscar al miglior film internazionale e nell’immaginario collettivo prende immediatamente posto accanto a Goodbye, Lenin! tra i film più celebri a tema Germania Est. Se però quest’ultimo è un film che riflette in termini di Ostalgie (neologismo che indica un sentimento di malinconico rimpianto rispetto ai tempi della DDR) e che tende comunque a riconoscere un intento di fondo positivo nell’ideologia, Le vite degli altri ne rappresenta un contraltare. Qui l’appartenenza partitica è spersonalizzante e pervasiva, una lente che distorce la visione di chi la porta. Ricordate delle due caratteristiche umane di cui parlavo all’inizio, la tecnica e la sensibilità? Ebbene, l’elemento peggiore di tutti risiede proprio qui, nella disumanizzazione di queste qualità umane. Ma vediamo più nel dettaglio cosa intendo.
“Mi fido del mio naso, non sbaglia mai”
Microfoni, cuffie, binocoli, cronometri, metal detector, mangianastri, apparecchiature radio, citofoni… Quelle che normalmente sarebbero considerate invenzioni e conquiste tecnologiche atte a migliorarci la vita diventano prolungamento sensoriale del partito. L’idea orwelliana di controllo sociale assoluto è almeno parzialmente realizzata, e la microspia assurge a rappresentazione del potere repressivo. La qualità della tecnica, alla quale accennavamo, è piegata a un intento malvagio, di sopraffazione. Ma non finisce qui. Paradossalmente, i funzionari della Stasi sono persone di spiccata empatia, capaci di connettersi emotivamente con grande facilità con il prossimo. La spia è colui che ha la qualità di capire ciò che è nascosto dietro le pieghe di uno sguardo o di un’esitazione e che sa sempre qual è l’aspetto più importante su cui indagare, al pari di un cane da fiuto. Ecco che anche l’altra capacità umana, la sensibilità, viene prostrata per scopi oppressivi.Questo meccanismo spietato però va in crisi quando il controllore, che di empatia vive, viene da essa sopraffatto. Il contatto con i momenti quotidiani di calore e bellezza presenti nella vita degli altri finisce inevitabilmente per suscitare domande sulla propria, di vite. È così che si finisce per andare in cerca di surrogati di felicità, o addirittura a voler essere partecipi delle gioie altrui. La stessa tecnologia a questo punto muta da mezzo di controllo a metodo di protezione: un paio di cuffie, piuttosto che perpetrare soprusi, può servire a fare del bene, se guidato dall’umanità. Il male non è negli strumenti, e nemmeno nella sensibilità, che sono di per sé elementi neutri, ma nelle intenzioni.
“Come fa chi ha ascoltato questa musica, ma veramente ascoltato, a rimanere cattivo?”
E allora, dalle Vite degli altri cosa possiamo trarne noi, nel 2020, isolati nelle nostre case? I mezzi di comunicazione che usiamo ogni giorno non sono né bene né male, sono semplicemente conquiste della tecnica. Se per anni li abbiamo vissuti in una spirale di banalizzazione adesso ci appaiono fondamentali, e ce ne appropriamo per rispondere a nostre esigenze umane primarie, per fare e farci del bene. E così è la nostra sensibilità, oggi molto più viva e propensa a connettersi con gli altri, piuttosto che a respingerli. Siamo tornati all’inizio, alla percezione delle cose: un diverso punto di vista può fare la differenza tra un mondo cattivo e di paura e uno di ottimismo e solidarietà. Com’era la frase? “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”? Ecco, se uno strumento ci rende più potenti, se la tecnica ci aiuta, questo non ci esime dal tentare di renderle migliori, e non peggiori, le vite degli altri.
Nicola Carmignani