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“The Bear”: cucinare è un atto politico

C’è chi ha aperto questo articolo perché davvero interessato alla serie, chi invece perché attratto dall’immagine di copertina con il volto di Jeremy Allen White, già celebre per aver interpretato il ruolo di Lip Gallagher in quel piccolo – e ormai concluso – capolavoro americano che è Shameless.

Lo stesso concetto si può applicare ai fruitori di questa serie: c’è chi lo ha fatto perché effettivamente interessato a guardarla, chi invece perché non ha ancora superato l’astinenza da Shameless.

Chi scrive, si trova a metà strada. Come, d’altronde, a metà strada è anche The Bear, serie dramedy distribuita su Disney + per la regia di Christopher Storer.

Dalle stelle (Michelin) alle stalle

La trama, a primo sguardo, si lascia apprezzare: Carmy (Jeremy Allen White) è un affermato chef abituato a lavorare nei più raffinati ristoranti mondiali che ritorna nella propria città di nascita, una contraddittoria Chicago, per gestire la fatiscente paninoteca di famiglia in seguito al suicidio del fratello maggiore.

Tra debiti, spaccio di droga, stress post-traumatici e tensioni familiari, la sua vita viene letteralmente catapultata dalle stelle Michelin a cui era avvezzo alle stalle del mal gestito locale. Come se non bastasse, a fare da sfondo ad uno scenario già di per sé decadente si aggiungono le conseguenze della pandemia, che ha messo a dura prova il settore della ristorazione.

Ma questo non sarebbe comunque sufficiente a definire la serie – come è accaduto – “la rivelazione dell’anno”. Infatti, c’è molto di più.

Una cucina claustrofobica, non romanzata

È il fattore “successo” quello che più di tutti ci convince a guardarla: sarà perché siamo facilmente influenzabili, o perché, il più delle volte, quando in tanti parlano bene di qualcosa, allora è probabile che quel qualcosa sia veramente ben fatto. È un gesto di fiducia.

E la fiducia, in questo caso, viene ripagata: da un punto di vista tecnico, la serie vanta un montaggio e una colonna sonora invidiabili, in grado di accompagnare le sequenze frenetiche che descrivono la “giornata lavorativa tipo” di una cucina di Chicago.

Una narrazione del settore gastronomico finalmente realistica, in cui le voci si accavallano, i rumori in sottofondo sembrano superare i dialoghi tra gli attori, in un turbinio frenetico che fa sentire gli spettatori stanchi, come se stessero lavorando anche loro a pieno ritmo.

L’episodio sette, in particolar modo, è un unico e stressante piano sequenza di 20 minuti scanditi dal tempo delle ordinazioni e dallo sbattere delle pentole sui fornelli.

Una cucina claustrofobica, quindi, e non romanzata. O – se preferite – agitata, non mescolata.

“Sì, chef!”

Christopher Storer con The Bear pone sullo schermo una Chicago con tutte le sue contraddizioni, che poi sono quelle dell’America, che poi sono quelle della società capitalista.

Il lavoro è presentato per quello che è: ciò che nobilita l’uomo e, al contempo, ciò che lo rende schiavo.

Un dualismo a cui i protagonisti non possono rinunciare e a cui, anzi, si aggrappano, trasformando involontariamente la cucina in un piccolo spazio politico, in cui tutti sono posti sullo stesso piano egualitario. Fatiscente, sì, ma egualitario.

“Sì, chef” si risponde, indistintamente, a chiunque chieda qualcosa, che sia esso il responsabile della brigata o l’ultimo dei lavapiatti.

Ma quindi chi è The Bear?

In un contesto in cui ognuno è vittima e carnefice di sé stesso, è difficile capire chi sia il vero Bear.

Probabilmente, se questo esiste, è da ricercare nella società stessa, che tiene tutti i protagonisti tra i suoi artigli, mentre questi tentano di affrontarne il caos come meglio gli riesce, districandosi tra i propri traumi e tra le fragilità umane.

E forse, l’unico modo per venirne a capo, è darsi un ordine, dei compiti da portare a termine e continuo sostegno reciproco. Proprio come in una brigata.

Irene Centola