America, 1960-1970: erano gli anni delle rivoluzioni, del rock and roll, delle guerre, del cinema. La Nuova Hollywood cominciava a prendere forma, modellando per sé nuove figure del mondo del cinema che rappresentano, ancora oggi, tasselli importanti della produzione filmica internazionale. La generazione dei movie brats muoveva i suoi primi passi: registi come Martin Scorsese, Brian De Palma, George Lucas, Steven Spielberg, Woody Allen, Francis Ford Coppola ottennero il completo controllo sulle proprie produzioni, regalando all’America e al mondo, pellicole che i nostri genitori spolverano ancora sulla mensola della cineteca di casa. In questo periodo di grande produzione creativa, i temi affrontati sono molto attuali. I film trattano argomenti che prima venivano considerati tabù, ma che forse, oggi, facciamo solo finta di conoscere meglio. La sessualità, l’emancipazione femminile, la solitudine e l’inquietudine giovanile, una riflessione critica sulle minoranze etniche americane e sulla guerra.
La guerra in Vietnam: come i registi raccontano il conflitto
In particolare, la guerra in Vietnam sembra essere fonte di ispirazione per numerosi cineasti che hanno vissuto, in prima persona o da comuni spettatori, questo tragico evento storico. Il focus sull’argomento non è mai lo stesso, un po’ come lo sguardo del regista nell’obiettivo della cinepresa. Kubrick regala, con Full Metal Jacket del 1987, un percorso di trasformazione fisica e psicologica di alcune giovani reclute statunitensi, addestrate per diventare delle vere e proprie macchine da guerra.
Lo stesso anno usciva Good morning, Vietnam di Barry Levinson, in cui la tragedia del conflitto viene attenuata dalla voce irriverente del disc jockey Adrian Cronauer (Robin Williams), a colpi di battute e musica rock. Scorsese porta su schermo Taxi Driver (1976) e, con esso, il post-guerra americano, la solitudine e le difficoltà che hanno avuto gli ex-soldati a riadattarsi in una società da cui erano stati traditi. Ed infine, Steven Spielberg che, con The Post (2017), racconta la guerra dietro la scrivania di una delle più grandi redazioni giornalistiche statunitensi.
The Post o come un giornale ha cambiato le sorti di un Paese
Candidato al premio Oscar per miglior film nel 2018, The Post narra la storia della pubblicazione di alcuni documenti top-secret del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d’America. Noti come Pentagon Papers, vennero pubblicati prima sul New York Times e poi sul Washington Post. 7000 pagine di storia mai rivelata, bensì travisata da coloro che temevano un confronto con la realtà. 7000 pagine di evidenza del fatto che il conflitto non avrebbe mai avuto un esito positivo: lo stato americano mandava, consapevole della disfatta, i suoi figli a morire. Pagine in cui veniva chiaramente specificato che la guerra era stata combattuta solo in parte per aiutare i vietnamiti e per contenere la Cina (un modo carino per dire i comunisti), ma principalmente per “salvare la faccia”. Di sconfitta, il governo statunitense, proprio non ne voleva sentir parlare e sarebbe stato disposto a tutto pur di nascondere i suoi crimini, anche negare la libertà di stampa.
Per quanto sia una trama avvincente, nella prima parte del film, sembra che Spielberg trattenga il pubblico all’interno della redazione del Post, mentre in Vietnam si perdono tanti uomini e tante speranze in una vittoria che, al contrario di quello dimostrato sul campo di battaglia, viene annunciata come sicura. Ma poi, appena la redazione, capeggiata da Benjamin Bradlee (Tom Hanks), riesce ad avere tra le mani QUEI documenti, la situazione si rivolta. L’ultima metà del film è una corsa affannosa verso la ricerca della verità. Un piccolo atto di rivoluzione che potrebbe mettere a repentaglio la carriera di molti giornalisti del Washington Post e della sua editrice Katharine Graham, interpretata da Meryl Streep.
Katherine Graham: il difficile ruolo della prima editrice donna americana
Di rilevante importanza il personaggio interpretato da Meryl Streep. “Era il 1971 e Katherine Graham si trovava in un mondo di uomini, un mondo in cui era particolarmente difficile prendere una posizione.” dichiara l’attrice in un’intervista alla CBS. La Streep dà il volto ad una donna che sembra fatta di apparenze, insicura, intelligente ma in attesa di approvazioni. Una donna che sembra non essere all’altezza della sua redazione. Eppure, alla fine “si è trovata in un momento della storia in cui ha fatto la storia, essendo eroe di se stessa e non vittima”. Prima editrice donna del suo Paese, Katherine Graham ha preso parte, accompagnata dai suoi giornalisti, a una battaglia senza precedenti tra la stampa e il governo.
L’incredibile contemporaneità di The Post
The Post è un film incredibilmente contemporaneo sull’importanza della libertà di stampa, il grande potere dei mass media sulle persone, la coscienza e il grande obbligo morale di distinguere ciò che è vero e ciò che falso, giusto o sbagliato. Una buona informazione è fondamentale: quando al telegiornale, sulla prima pagina di un quotidiano o sulla bacheca dei nostri social appaiono notizie poco dettagliate, è immediata una reazione di panico da parte del pubblico. Gli aggiornamenti sull’attualità sono a portata di click, per questo è molto più semplice confondere un fatto reale da una fake news. Questa immediatezza lascia che una bufala diventi virale in pochi secondi.
Provate a pensare allo scandalo dei Pentagon Papers oggi. Nonostante siano passati quasi cinquant’anni dalla pubblicazione di quei documenti, non sembra difficile immaginare momenti di così alta tensione tra stato e mass media. Mantenere la calma, guardare un buon film e rifletterci su, sembra essere una soluzione più che valida in una realtà che ha già tutte le caratteristiche di una pellicola distopica. Spielberg ci lascia la possibilità di vedere, attraverso il suo personalissimo punto di vista, cosa succede tra i mass media e il governo di un Paese in momenti di alta tensione. Inoltre, sottolinea quanto non dobbiamo dare per scontato la libertà di stampa, un lusso che, ancora oggi, molti Paesi non possono permettersi.
Miriam Russo