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Venezia, o le 11 giornate di mediocrità

1- Un Rashomon al contrario

Ci siamo. È arrivato il termine di questa tiepida seppur talvolta focosa #Venezia79.

Tanti i film già proiettati, tanti i noti volti già passati tra le sale dell’Excelsior, tanto il pubblico errante che vaga speranzoso e fomentato tra le calde strade di Lido, tante insomma le sensazioni scorse in questa prima settimana della 79ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (cercherò di non scriverlo ulteriormente in forma ufficiale per il vostro benessere mentale).

Le sensazioni che trasmette questa edizione, si può dire, mettono d’accordo tutti e vivendole dall’interno è facile percepirle.

Si tratta in questo senso di un Rashomon viceverso poiché dalle pareti delle sale e dalle mura della Mostra si evince un comune senso di piattezza e di aridità, di novità che però non sfociano in entusiasmo, un senso chiaramente percepibile di mancanza di un climax, di un vero pezzo forte che ruggisca con decisione a questa #Venezia79.

Il vero difetto/non difetto di questa edizione è che tutti i film o quasi sono essenzialmente mediocri, ce ne sono di belli ma non bellissimi, di brutti ma non bruttissimi e questo appiattisce il fragore tipico della Mostra del Cinema, la quale dovrebbe sconvolgere, colpire, portare innovazione e originalità e che invece, forse ancora per gli strascichi degli ultimi due anni, è rimasta timida e in una noiosa zona di comfort (per la quale intendo il politically correct).

Il fatto è che da periodi bui, nel nostro caso estremamente bui e vacui, la reazione dovrebbe essere imminente e non lasciare spazio all’attesa; anche perché il compito nodale del Cinema è proprio il trarre forza dalla crisi, che sia una crisi dell’animo, d’amore, economica o politica.

Tant’è vero che torna così veritiero e cristallino questo folgorante verso di Battiato: “… E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”.

Pare quindi che anche i vertici della Biennale cinema ed in primis i registi di tutto il mondo abbiano trovato tortuosa la produzione di film sorprendenti, sconcertanti, disturbanti.

2 – Nothing and all

I film andati in sala, posso ovviamente parlare solo per quelli visionati, sono stati tutti discreti, molti esageratamente lunghi (oltre le tre ore), taluni addirittura molto brevi.

Sono tutte pellicole diverse tra loro con temi differenti ma mai originali e con un punto in comune: non sono film con un carattere tale da portare frastuono e clamore nel lungo termine, al limite solo un esile e caduco rumore bianco.

Mi accingo quindi a portarvi le impressioni comuni e discordanti dei diretti interessati, i film, che uno ad uno hanno scandito le giornate di questa 79ª edizione di Venezia.

Sarà che eravamo abbacinati dal cast e dalla conduzione dell’opera ma parlando di “Bones and all” di Luca Guadagnino non si può dire certo, dopo una prima visione, che sia tornato al livello di “Call me by your name”.

Certo, lo stampo e la personalità del regista si sentono chiaramente fin dal principio (e già qui qualche non amante potrebbe determinare la dipartita dell’opera) ma il film, nonostante non sia privo di plot twists, rimane fine a se stesso, non è portatore di un messaggio, non invita lo spettatore a riflettere e non carica di emotività la sala.

È un film che, per essere telegrafici, racconta una storia d’amore on the road di due giovani affetti (non per scelta dunque) da antropofagia, condizione per cui sono soggetti emarginati, dei dropout con famiglie disfatte e con tanta fame da portarli a frasi come “amami e nutriti di me”.

Film che ergo sta al limite tra l’originale (neanche troppo essendo il cannibalismo sdoganato nel mondo cinema) e il patetico, tra il romantico e lo splatter.

Innegabili in tutto ciò le interpretazioni dei due fantastici e follemente acclamati attori protagonisti Taylor Russel e Timothée Chalamet, anche se personalmente il personaggio emblematico (a dir poco) di Sully, interpretato da Mark Rylance ha messo un velo sui due attori sopraccitati.

Per quanto concerne Noah Baumbach, anch’egli non torna alla splendore profondo di “Storia di un matrimonio” e in “White Noise” riesce non del tutto nella trasposizione cinematografica di un romanzo impossibile: “Rumore Bianco” di Don DeLillo.

Il film è composto da un’ammirevole fotografia, che costruisce un’atmosfera perfetta attorno all’ambiente apocalittico e tragico, metafisico e a tratti horror che contraddistingue il mood della pellicola.

I temi rivisitati all’interno del film sono poi quelli attuali: ci sono le catastrofi ambientali, i disagi collettivi in seguito ad una crisi, l’implosione del nucleo familiare e le sue patetiche contraddizioni, c’è poi, come consueto, il ritorno alla normalità come nulla fosse.

Anche il cast non è certo da meno; hanno infatti partecipato Adam Driver, Greta Gerwig, Don Cheadle, Raffey Cassidy i quali hanno tutti consegnato alla Mostra una buona interpretazione ma non brillante come nel loro rispettivo passato, anche più recente.

Il fattore che lascia l’amaro in bocca è senz’altro la messa in scena del prodotto audiovisivo che, a causa certo dell’origine romanzesca della storia, in chiave filmica ha portato solo confusione, disturbo e mal di testa. Per non parlare dell’ottica pienamente commerciale del film, nel quale non si riusciva a non scorgere in ogni scena un product placement, anche tra i più impensabili.

3 – Diamanti grezzi

Voltando la pagina internazionale, passiamo all’italianità di #Venezia79. Come non parlare dunque di Emanuele Crialese che con il suo “L’immensità” ci teletrasporta all’interno di una travagliata famiglia degli anni ‘70, tramite cui offre l’opportunità di omaggiare la nostra compianta Raffaella Carrà ma anche tutto il panorama musicale italiano dell’epoca.

Il film ha fondamentalmente due tematiche: la violenza domestica e la volontà di far accettare la propria sessualità.

Il regista ha però delle evidenti difficoltà nel raccontare questa difficile storia familiare e talvolta lascia dei buchi che lo spettatore difficilmente copre.

Rimane comunque memorabile la reinterpretazione di “Prisencolinensinainciusol” di Celentano da parte della giovane attrice protagonista Luana Giuliani e della bellissima e magistrale Penélope Cruz, che recita in italiano (o almeno ci prova).

Il film che, tra quelli visionati, è forse riuscito maggiormente nel creare un personaggio forte e significativo, in coesione con uno storytelling affascinante e raffinato, è secondo me “Tàr” di Todd Field.

Cate Blanchett in questa pellicola è stata probabilmente perfetta, ha portato al pubblico in sala un crescendo di profonda avversione, di detestamento sino ad arrivare all’orrore verso questa maestra d’orchestra accecata dall’arroganza e dalla presunzione di essere la migliore.

Si tratta senza dubbio di un film troppo lungo, specialmente nella prima mezz’ora lento e pesante a causa di un paio di piano sequenze da quasi dieci minuti.

Al di fuori della durata rimane comunque un’opera di riflessione importante e di spessore, che lascia qualcosa su cui riflettere una volta usciti dalla sala. Un film senza errori e che, aiutato dalla fenomenale interpretazione attoriale, potrebbe conquistare il premio più ambito.

Sono queste, in conclusione, le 11 giornate di mediocrità che hanno pervaso Venezia e l’intero mondo appassionato di cinema e glamour.

Ludovico Pravato