Dopo anni di silenzio, lontane dal piccolo schermo, Wanna Marchi e Stefania Nobile sono tornate davanti alle telecamere per raccontare al pubblico di Netflix la loro vita fatta di eccessi: tra lavoro, furti e un irrefrenabile desiderio di ostentare le proprie ricchezze di dubbia provenienza.
La docu-serie “Wanna” (regia di Nicola Prosatore) si divide in quattro episodi da quarantacinque minuti, durante i quali le due protagoniste alternano i propri racconti con quelli di altre testimonianze dirette: vittime, complici e collaboratori inconsapevoli dell’organizzazione a delinquere che le regine della televendita stavano costruendo.
Slogan e victim blaming
I due aspetti che più di tutti vengono messi in risalto dalla serie sono il cinismo e la disinvoltura con cui Wanna Marchi e Stefania Nobile – al grido di “D’accordo?” e “I co*****i vanno inc****i!” – ammettono di aver derubato milioni di telespettatori ma al contempo dichiarano, con lucidità e convinzione, di non aver commesso alcun crimine nel farlo e di essersi rivolte solo a chi meritava davvero di essere truffato.
Questa sfacciataggine, nascosta dietro una finta sincerità, è presente durante tutta la narrazione della storia di Wanna Marchi (dalla nascita fino ai giorni nostri) e mostra la protagonista sotto una luce diversa da quella che tutti conosciamo: forse più umana, forse meno invincibile di come lei stessa vuole sembrare. In ogni caso, le immagini di repertorio e l’impostazione del racconto della serie ci ricordano chi sono Wanna e sua figlia: due donne che, pur di arricchirsi, insultavano le telespettatrici e minacciavano le vittime della loro frode. Lo spettatore, dunque, non rischia mai di cadere nella trappola della “mitizzazione” di due figure così affascinanti, così potenti e, contemporaneamente, così pericolose.
La storia delle vittime
Altro aspetto che viene evidenziato in questa serie è la strategia adottata da Wanna Marchi e dai suoi collaboratori per turlupinare le possibili vittime di truffa. Senza scadere nella banalità, la voce narrante e le testimonianze dirette contestualizzano l’ambiente culturale e commerciale in cui le due abili venditrici si sono inserite gradualmente, prima per vendere e poi per truffare. Espongono, inoltre, le argomentazioni ben ponderate e le seguenti minacce e pressioni psicologiche che regolarmente venivano fatte agli acquirenti, specialmente quando non intendevano più pagare o acquistare i loro servizi.
“Wanna”: una serie che tiene alta l’attenzione del pubblico
L’abilità di bucare lo schermo di Wanna Marchi e di Stefania Nobile, nel bene e nel male, è indubbia. Meno scontata, invece, è la pazienza che il pubblico può avere nei loro confronti durante tutta la docu-serie, dove la mancanza di tatto e l’eccessivo narcisismo delle due protagoniste diventano, talvolta, insopportabili. Tuttavia, grazie ad una buona gestione dei tempi televisivi e ad un suggestivo montaggio che alterna monologhi, dialoghi e i momenti in cui le due donne ripercorrono i luoghi della loro vita personale e lavorativa, lo spettatore riesce a guardare le quattro puntate tutte d’un fiato, controllando l’inevitabile tentazione di saltare le scene in cui le protagoniste danno il peggio di sé.
Dunque, “Wanna” è una serie che va vista?
Assolutamente sì! Perché “Wanna” documenta chiaramente una storia che ha segnato, per anni, moltissimi italiani e che, di conseguenza, mostra uno spaccato molto importante del nostro paese. Inoltre, la corretta narrazione dei fatti, data anche dal contributo di vittime e testimoni esterni, illustra in modo chiaro e tondo quanto sia facile cadere nell’inganno di gente abituata a truffare, specialmente quando si ha a che fare con un’organizzazione a delinquere altamente organizzata.
Virginia Revolti