A chi non è capitato di trovarsi di fronte a un foglio bianco, di posare la penna sul tavolo e sorreggere la testa con le proprie mani perché fare la lista degli invitati alla propria festa (di compleanno, di laurea, un matrimonio), ordinare il catering, prenotare la location, comprare gli addobbi, prendere i fiori era una mission (apparentemente) impossible?
Allora probabilmente ci sarà successo di delegare alcuni compiti a qualche amico fidato, provando, però, allo stesso tempo a non alterare gli equilibri del gruppo, quindi provando a coinvolgere e responsabilizzare un po’ tutti, in base alle capacità che col tempo abbiamo imparato a riconoscere loro.
Senza rendercene conto, l’intento di semplificare, ammettendo a noi stessi che da soli non possiamo pensare a tutto, si trasforma comunque in uno sforzo notevole. Quantomeno fino a quando non sarà ben chiaro come dividere i compiti, fino a quando la macchina non sarà stata avviata.
È successa la stessa cosa alla neo presidente eletta della Commissione Europea, Ursula von der Leyen.
Ventisei sono i nomi che ha scritto su un pezzo di carta dopo giorni di concertazione con i governi degli Stati membri, per provare a fare contenti tutti, tenendo conto, più o meno, anche delle forze politiche che in Parlamento hanno sostenuto la sua candidatura.
Proviamo, anche se può risultare un po’ disorientante, a tracciare una panoramica il più possibile esaustiva della compagine che dovrà sottoporsi al vaglio di Strasburgo.
Tutti i nuovi commissari europei
All’area del Partito Popolare europeo sono stati assegnati 12 incarichi. All’austriaco Magnus Brunner, ex ministro delle finanze, la delega agli Affari interni e migrazione; per Ekaterina Zaharieva, ex ministro degli esteri bulgaro, il compito di occuparsi di start-up, ricerca e innovazione. Riconfermata la croata Dubravka Šuica che, in questa compagine, dovrebbe occuparsi del Mediterraneo, ma anche il lettone Valdis Dombrovskis, con incarico su economia e produttività, implementazione e semplificazione, e l’olandese Wopke Hoekstra per il clima, crescita pulita e obiettivi net-zero. Cipro, invece, ha proposto il diverse volte ministro Costas Kadis, a cui von der Leyen avrebbe affidato la competenza alla pesca e agli oceani. Il ceco Jozef Síkela si occuperebbe dei partenariati internazionali, il greco Apostolos Tzitzikostas di trasporti sostenibili e turismo. Poi, ancora, il lituano Andrius Kubilius per la difesa e lo spazio aereo, il lussemburghese Christophe Hansen per agricoltura e alimentazione. All’ambasciatore polacco per l’UE, Piotr Serafin, l’importante portafoglio su bilancio, anti-frode, pubbliche amministrazioni. Jessika Roswall, di origine svedese, avrà tra le mani la delega all’ambiente, resilienza idrica ed economia circolare competitiva.
Per i Patrioti europei un solo commissario: l’ungherese Olivér Várhelyi si occuperà di salute e benessere animale;
Ai Socialisti e Democratici 4 poltrone. In particolare, al ministro danese per la Cooperazione allo Sviluppo e la Politica Climatica Globale, Dan Jorgensen, la delega all’energia e agli alloggi.
Al braccio destro del Premier maltese, Glenn Micallef, equità intergenerazionale, gioventù, cultura e sport; alla portoghese Maria Luís Albuquerque la delega sui servizi finanziari. Ritornerebbe a palazzo Berlaymont per l’ottava volta lo slovacco Maroš Šefčovič, nella nuova veste di commissario per il Commercio e sicurezza economica, relazioni interistituzionali e trasparenza.
Alla famiglia europea ALDE/Renew spettano, invece, 3 commissari. A Hadja Lahbib, attuale ministro degli affari esteri belga, la delega alla preparazione, gestione delle crisi, uguaglianza. A Michael McGrath, ex ministro delle finanze irlandesi, il compito di occuparsi di democrazia, giustizia e stato di diritto. Marta Kos, diplomatica slovena, è designata per occuparsi dell’allargamento.
A questi, si aggiungono i 6 vicepresidenti esecutivi.
La socialista e democratica spagnola Teresa Ribera sarà vicepresidente esecutiva per la transizione pulita, giusta e competitiva; l’europarlamentare finlandese del PPE, Henna Virkkunen, presiederà le questione relative a sovranità tecnologica, sicurezza e democrazia; a Renew la vicepresidenza per la prosperità e la strategia industriale, affidata al francese Stéphane Séjourné. Roxana Minzatu, europarlamentare rumena per S&D, dovrebbe assumere l’incarico di vicepresidente esecutiva per le persone, le competenze e la preparazione; l’italiano Raffaele Fitto, dell’ala di ECR, prenderà il posto di Elisa Ferreira come vicepresidente esecutivo per la coesione e le riforme.
Ultima, ma non per importanza, Kaja Kallas, ex primo ministro estone, della famiglia ALDE, succederà a Borrell nell’incarico di Alto Rappresentante.
Ricapitolando: il PPE ottiene 12 commissari + una vicepresidenza e la presidenza (ricordiamoci, infatti, che Von der Leyen appartiene a quella famiglia europea); S&D 4 commissari + 2 vicepresidenze; ai liberali vanno 3 commissari + l’Alto Rappresentante, agli estremisti di destra un commissario e un vicecommissario.
Come funzionano le nomine dei commissari?
Questo è l’equilibrio che Von der Leyen, insieme ai governi, è riuscita a trovare nel tentativo di mettere insieme le diverse matrici che hanno titolo a intervenire nella definizione della compagine esecutiva dell’Unione. In che senso?
Cerchiamo di non perderci, anche a costo di dover ripetere passaggi ormai assodati.
La procedura che, ogni 5 anni, porta alla nomina della Commissione Europea è disciplinata dal Trattato sull’UE e si può sostanzialmente dividere in due parti.
In prima battuta, i membri del Consiglio Europeo, cioè i Capi di Stato e di Governo dei paesi dell’UE, tenendo conto dei risultati delle elezioni del Parlamento europeo e deliberando a maggioranza qualificata, cioè con il voto favorevole del 55% degli Stati membri che rappresentino almeno il 65% della popolazione dell’UE, propongono un candidato alla presidenza della Commissione. Il Parlamento, a sua volta, a maggioranza dei suoi membri può confermare la proposta del Consiglio Europeo o rigettarla. Se il candidato non ottiene la maggioranza, il Consiglio europeo ha un mese di tempo per proporre un nuovo candidato, muovendosi dentro gli stessi paletti.
Nei fatti, quindi, che succede?
Succede che il candidato individuato dal Consiglio Europeo si presenta in Parlamento e presenta i propri orientamenti politici. Dopo il suo discorso programmatico, segue un dibattito tra gli europarlamentari, quindi la votazione.
Il 18 luglio il Parlamento Europeo ha riconfermato, con 401 voti su 707, Ursula von der Leyen alla guida della Commissione (noi c’eravamo e l’abbiamo raccontato qui).
A questo punto prende avvio la seconda fase, che vede l’interlocuzione tra il Presidente eletto e il Consiglio dell’UE. È, infatti, il Consiglio ad adottare l’elenco delle personalità da proporre per la nomina di membri della Commissione.
Come? Anche in questo caso il Trattato detta delle linee guida vincolanti per gli attori politici europei: i membri della Commissione devono essere scelti in base alla loro competenza generale e al loro impegno europeo. Altrettanto importante è che devono offrire garanzie di indipendenza.
Indipendenza da chi?
In base a una decisione del Consiglio Europeo del 22 maggio 2013, la Commissione è composta da un numero di membri, compreso il Presidente e l’Alto rappresentante, pari al numero degli Stati membri. E allora se 27 sono gli Stati membri, 27 dovranno essere i membri che compongono complessivamente la Commissione.
Nei fatti, viene nominato un Commissario per Stato membro. L’indipendenza, quindi, è da considerare rispetto al proprio governo (che, come abbiamo detto, dialoga con il candidato Presidente della Commissione per l’individuazione del candidato commissario che deve essere poi indipendente) e, più in generale, al proprio Stato.
Le audizioni: perché sono così importanti
Individuati i Commissari, si apre la fase delle audizioni davanti alle varie commissioni parlamentari in base al portafoglio di competenze che sono state attribuite.
Per esempio, il Commissario per l’agricoltura dovrà essere audito dalla commissione AGRI e così via. Ciascuna commissione valuta, quindi, le competenze del candidato e le trasmette al Presidente del Parlamento. Una valutazione negativa non è di per sé vincolante, ma può indurre i candidati a ritirarsi dal processo. Un precedente di questo tipo, peraltro nostrano, fu quello che riguardò Buttiglione nel 2004, sotto il Governo Berlusconi.
Bene. Allo stato attuale siamo arrivati anche a questo step.
Le audizioni si sono tenute dal 4 al 12 novembre.
Cosa manca?
Manca il voto di approvazione dell’intero pacchetto, che include, oltre ai commissari, anche il Presidente e l’Alto Rappresentante, da parte del Parlamento Europeo, quindi la palla tornerebbe al Consiglio Europeo per formalizzare la nomina, deliberando nuovamente a maggioranza qualificata. Così, in un certo senso, si chiude il cerchio, anche se l’ultimo passaggio, quello del Consiglio Europeo, appare più come una formalità. Ma è l’Europa a chiederci che siano coinvolti tutti i livelli politico-istituzionali, quindi va bene così.
La votazione da parte del PE è prevista per mercoledì 27 novembre.
Fila tutto liscio come l’olio? Beh, chiaramente no.
Il caso Fitto – Ribeira
Solamente ieri, mercoledì 20 ottobre, è terminato il lungo braccio di ferro tra popolari e democratici per le nomine di Raffaele Fitto e Teresa Ribeira.
I democratici, i liberali e i verdi non intendevano votare come vicepresidente Fitto in quanto esponente di ECR, partito che non ha supportato la candidatura di Von der Leyen. In effetti, come è possibile che in Commissione trovi rappresentanza anche chi ha dichiarato di non volerla sostenere? Sembra strano, ma formalmente è possibile. Infatti, la nomina dei commissari è proposta dai governi e, più che riflettere
la composizione delle forze politiche a Strasburgo, riflette gli assetti politici nazionali.
Di contro, i popolari, che vogliono crearsi una sponda con i riformisti e conservatori europei, provando a seguire un po’ il trend delle ultime politiche, che vede l’Europa spostarsi sempre più a destra, hanno tentato di convincere l’ala più progressista a non votare per la spagnola Ribeira, che poi comunque ce l’ha fatta come il suo collega italiano.
Altro nome non particolarmente ben visto è quello dell’ungherese Várhelyi, un po’ per lo stretto legame con Orban, un po’ per il rapporto ostico con gli europarlamentari. Nelle vesti di commissario all’Allargamento nel primo mandato di Von der Leyen, infatti, aveva definito i membri dell’Eurocamera degli “idioti” – non proprio un’ottima strategia per ingraziarseli.
Addirittura tra i corridoi di Bruxelles si vocifera l’eventualità di sostituire Von der Leyen con Mario Draghi (solito jolly istituzionale) nel caso in cui la presidente eletta non riesca a venire a capo di questo impasse.
Però è proprio il fatto che l’ingranaggio rischi (momentaneamente) di incepparsi che mette in luce la misura dell’importanza che ha per l’Unione la nomina dei commissari. Insomma, perché aver previsto una procedura così complessa e che vede la concertazione di tutti gli organi politici non è bastato? Perché tutto non riesce a fluire esattamente come previsto dai Trattati? Dove e perché si crea l’ingorgo?
Ecco che queste domande ci suggeriscono che deve interessarci sapere chi sono i commissari, di che nazionalità sono, che portafoglio hanno.
Equilibri interni e peso internazionale dell’Ue
Sebbene i Trattati prescrivano l’indipendenza dei commissari perché solo in una condizione di libertà possono curare gli interessi dell’intera Unione, la loro nomina è di fatto affidata ai governi dei 27 e all’Eurocamera.
Questo riflette, come in un caleidoscopio, gli equilibri politici tra gli Stati europei, ma anche quelli tra i partiti che animano le agorà nazionali e quella comunitaria.
Quindi, oltre a un buon banco di prova per le linee programmatiche che si intendono seguire, le dinamiche interne che portano alla nomina della Commissione mostrano lo stato di salute dell’Unione, delle relazioni tra i suoi Stati membri e tra le famiglie politiche europee, e l’efficienza reale dei suoi meccanismi democratici.
«Mentre a Bruxelles si delibera, Sagunto viene espugnata» verrebbe da dire, se proviamo ad allargare l’orizzonte, includendo la situazione geopolitica che da un po’ di anni e oggi anche con l’elezione di Trump alla Casa Bianca si sta delineando.
Questo, però, non necessariamente vuol dire dover rivisitare i Trattati nell’ottica di rafforzare l’esecutivo europeo, perché sia più aderente con gli orientamenti nazionali.
Semmai si dovrebbe immaginare di escludere dal dialogo per la definizione dell’esecutivo i governi nazionali, per riportare tutto alla dialettica democratica tra Parlamento, che vota la fiducia, e presidente eletto.
In realtà, se ci soffermiamo un altro po’, non possiamo non considerare quanto lo strumento giuridico non sia sempre quello più efficace per risolvere una situazione che, invece, è prettamente politica.
Non sempre basta cambiare le regole per far funzionare le cose. Sarebbe la scelta “più semplice”, ma probabilmente quella meno risolutiva.
Pensiamoci: si organizza una festa quando si taglia un traguardo. E tagliare un traguardo vuol dire aggiungere un tassello in più al proprio percorso di crescita. Vuol dire, quindi, che si sta crescendo.
Forse il contesto internazionale e quello interno altro non stanno facendo che ricordare all’Europa che è già maturata e che è tempo di capire cosa vuole essere da grande.
Renata Giordano