L’orchestra filarmonica di Berlino ha eseguito lo scorso l’11 gennaio il terzo concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven sotto la direzione di Kiril Petrenko e con Daniel Barenboim solista. Un’esecuzione magistrale come ci si poteva aspettare da quella che è una delle migliori orchestre al mondo sotto la guida esperta di un direttore come Petrenko. Una profonda comprensione della partitura caratterizza sia la direzione che il solista, egli stesso direttore d’orchestra e il risultato è quello di un’esecuzione che esprime nella sua totalità l’essenza del concerto beethoveniano e i profondi contenuti che vi ha impresso, regalando all’ascoltatore un’esperienza interiore ricca di emozioni e introspezione.
La composizione è stata scritta tra il 1800 e il 1803, in una fase di transizione tra la fedeltà alla classicità e la rottura dei modelli formali e del sistema tonale, ovvero quella rivoluzione in senso soggettivistico che Beethoven compirà dopo poco. Il modello del concerto classico viene portato al suo apice e allo stesso tempo sono già presenti elementi innovativi, soprattutto per quanto riguarda il pianoforte, che acquista una forte individualità e personalità contrapposta all’orchestra, con la quale si trova in continuo dialogo dialettico. Il primo tempo “Allegro con brio”, in Do minore, inizia con l’esposizione da parte dell’orchestra dei due temi e di grande effetto è l’entrata del solista, che riprende in doppie ottave ascendenti il primo tema, in una vera e propria affermazione di forza. Il pianoforte apre il secondo tempo, un dolce e malinconico “Largo” in Mi maggiore, tonalità lontana da quella di impianto che crea uno straniante contrasto con l’atmosfera tesa del primo tempo. Nel “Rondò” finale ha pieno spazio la brillantezza tecnica del pianista, uno sfoggio di virtuosismo dai toni più leggeri e scherzosi e il tema principale, in Do minore, modula nella coda con una conclusione trionfale in Do maggiore, un passaggio armonico che trasmette gioia e speranza.
L’orchestra fa un salto in avanti nel tempo eseguendo la sinfonia Asrael (1905/1906) del compositore ceco Josef Suk, pupillo e cognato di Antonín Dvořák, nata in seguito a due eventi tragici: la morte del maestro e della moglie. Asrael è il nome dell’angelo della morte nella mitologia islamica e ebraica e la sinfonia affronta i temi della morte, della perdita e dolore, in una tonalità che si presta a ciò più di tutte, il Do minore, per approdare dopo un lungo e travagliato percorso al Do maggiore, secondo il filo che lega questo concerto: la speranza che risorge anche dopo la tempesta.