I Maneskin vincono la settantunesima edizione del Festival di Sanremo e vengono acclamati come il nuovo fenomeno rock giovanile.
Ma partiamo dal principio. Chi sono i Maneskin?
Damiano alla voce, Victoria al basso, Ethan alla batteria e Thomas alla chitarra. Partono da X-Factor come pupilli di Manuel Agnelli e arrivano alla finale sfiorando di pochissimo la vittoria che infine va a Lorenzo Licitra. Da lì entrare a far parte della kermesse sanremese è un attimo, un vero e proprio battito di ciglia. Così, può essere riassunto il fenomeno rappresentato dai Maneskin. Ecco qua. Fine.
Poniamoci ora una domanda diversa. Uno di quei dubbi amletici che ti bloccano per secondi interminabili a pensare quale potrebbe essere la risposta più giusta a esso (anche se forse una vera risposta corretta non esiste). I Maneskin vengono definiti il fenomeno rock italiano degli ultimi tempi (e tengo a sottolineare italiano), ma cosa intendiamo noi per rock?
Le risposte possono essere molteplici e tutte personalissime. Per me rock significa non scendere a compromessi, avere un’attitudine grezza che non vuole in nessun modo essere contaminata da chiccherie e fronzoli. Rock non è solo chitarra elettrica (ce lo insegnano Joni Mitchel, Patti Smith e Neil Young tra i tanti), non è solo apparenza e estetica portata allo stremo (tuttavia ciò non toglie che possa essere anche questo e ce lo dimostrano i Motley Crue, Alice Cooper e, perché no, Annie Lennox), non sempre è autocelebrazione di sé stessi.
Il rock è tutto e niente. Le grandi innovazioni di questo marasma di suoni e sensazioni però sono praticamente state già viste (e forse riviste), indi per cui è molto facile arrivati a un certo punto essere la macchietta di qualcuno che ha già dettato legge in questo panorama. In Italia l’innovazione rock non è mai del tutto arrivata e forse è per questo motivo che un gruppo di quattro persone stracolme di energie e apparentemente sopra le righe risulta così legato a un concetto del termine “rock” ormai demodé.
“Siamo fuori di testa, ma diversi da loro”.
Ecco, forse sarebbe molto più “rock” esprimere questo concetto senza dirlo apertamente, ma grazie a un atteggiamento che sappia di sana libertà, di lotta contro gli stigmi, di apertura mentale. Va di certo superata la dicitura “sesso, droga e rock’n roll” che tanto è stata amata negli anni ’70, dato che (purtroppo o per fortuna) il presente non ha più bisogno di tutta questa affascinante banalità che ha già avuto la sua massima espressione e gloria in tempi che non ci appartengono.
L’italia ha sempre subìto le influenze straniere in fatto di musica, quasi mai ha inventato qualcosa. Nel rock men che meno. Ma se almeno negli anni ’90 i Negrita proponevano un suono a metà tra i “vecchi” Rolling Stones e gli appena nati Pearl Jam, oggi, complice il revival anni ‘80, i gruppi italiani propongono senza carattere qualcosa di già sentito e visto. Il caso dei Maneskin è eclatante: accuse di plagio a parte, il pezzo suona tutto tranne che originale, con spunti sonori che ricordano a tratti i recentissimi Royal Blood, ma che più in generale si rifanno ad un indefinito rock.
Di nessuno in particolare e quindi di tutti.
Quei brani mai sentiti che al primo ascolto suonano già familiari per quanto sono immersi nel canone del genere fino alla punta dei capelli. Oltre ai suoni, il look con cui si presentano i Maneskin, spiace dirlo, non è rivoluzionario, vista l’epoca tutt’altro che oscurantista. Una rivoluzione in assenza dell’ordine da soverchiare, verrebbe da dire. Un look da rockstar anni 70/80, guarda caso. Sull’onda di questo revival, ancora una volta si è persa l’occasione di fare qualcosa che veramente potesse essere nuovo, fresco, “nostro”. Peccato.
Silvia Frattini e Alessandro Monfoglio