Oggi 31 agosto l’estate muore, come canta Brunori SAS nella sua Guardia ’82. Domani ricomincia settembre e la voglia di lasciarci alle spalle una stagione sicuramente particolare è tanta. Nonostante tutto, però, questi mesi non ci hanno deluso del tutto dal punto di vista musicale (o forse sì, abbiamo già scritto qualcosa al riguardo).
Se per molti estate significa ascoltare canzoni spagnoleggianti, voglia di ballare in spiaggia, abbronzarsi e fare tardi la sera, per un’altra buona parte tutto questo è un incubo che si ripete. In estate passano in sordina moltissime uscite interessanti e molte di queste sono tristi. E fatevelo dire, a noi che piace la musica che fa male, quella che fa piangere e che ci spezza le ossa, va bene così.
Proprio per questo aspettare cinque mesi l’album dei Bright Eyes, anticipato a partire da marzo da quattro singoli, non mi è pesato troppo. Avevo un motivo per cui arrivare alla fine di un’estate infernale.
Down in the Weeds, Where the World Once Was è il primo lavoro in studio della band dal 2011, anno di uscita di The People’s Key. Conor Oberst, voce del gruppo, ha rimesso insieme la band per incidere questo disco. I tre membri, infatti, negli ultimi anni si sono dedicati tutti ad altri progetti. Sinceramente, non potevano scegliere momento migliore, sia per suonare di nuovo insieme, sia per pubblicare l’album.
Il disco ha 14 tracce, moltissime per un’uscita discografica nel 2020, contando che ad oggi la maggior parte dei dischi arriva difficilmente a una dozzina. Questo viaggio introspettivo nella mente e nel cuore di Oberst si apre con Pageturners Rag. La traccia è il risultato di un viaggio allucinogeno a base di funghi con la (ormai) ex-moglie e sua madre al Pageturners Lounge, di proprietà dello stesso cantante.
Andando avanti ci dimentichiamo degli stupefacenti e musica e parole ci prendono lo stomaco, lo fanno contorcere e ci fanno piangere. C’è un senso di incertezza relativa alla direzione che sta prendendo il mondo, ed è esplicitato in più di una traccia. Gli arrangiamenti musicali a cura degli altri due musicisti del gruppo, Mike Mogis e Nate Walcott, reggono benissimo questo clima. E non solo. Le chitarre, i sintetizzatori, il basso, le cornamuse e il resto ci cullano e ci riportano indietro alle sonorità e alla nostalgia tramite cui abbiamo amato e conosciuto i tre musicisti americani quasi due decadi fa.
Ovviamente i tre hanno scritto e prodotto il disco prima che la minaccia del Covid-19 ci travolgesse, ma le parole di Oberst dovrebbero farci riflettere. Scrive del Bataclan, della fine di un amore, della devastante perdita di un fratello vicino, di un mondo che sta per finire, di come convivere con ciò che sta nella propria testa. Il disco dice la brutale verità riguardo al mondo disturbato e caotico che viviamo quotidianamente. Ascoltarlo di questi tempi ci fa rendere conto che molte delle difficoltà che abbiamo vissuto in tre mesi, o poco più, di isolamento, sono il risultato di tempi difficili, che si protraggono da più di quanto immaginiamo.
L’album è uscito il 21 di agosto e da quel giorno lo avrò ascoltato almeno una decina di volte. Il primo impatto è stato disarmante, quasi come se un macigno mi si fosse posato improvvisamente sul petto facendomi piangere tutte le mie lacrime. Le lacrime però si asciugano e quello che rimane è la consapevolezza che il tempo che abbiamo è limitato e che non dovremmo sprecarlo per nessun motivo al mondo. Gli ascolti dopo il primo sono stati fondamentali per capire i pensieri profondi, leggere tra le righe e prestare attenzione alle sonorità più nascoste. Sono disponibili da qualche giorno tutti i testi dei brani sul sito ufficiale della band (questo vi renderà l’analisi molto più facile). Sicuramente non sarà un disco stravolgente e rivoluzionario, ma è davvero un gran bel disco.
Down in the Weeds, Where the World Once Was è la testimonianza lampante che la musica che fa male, in realtà, fa benissimo. Tutti abbiamo delle voci, le nostre paure e le nostre insicurezze e combattiamo le nostre battaglie.
Certo, a volte sarebbe utile prendersi una pausa da tutta questa tristezza incombente, ma poi dove starebbe il bello?
Diana Russo