Cerca
Close this search box.

L’Osteria del palco: intervista all’autrice Francesca Amodio

Edito per la casa editrice Polaris, L’Osteria del palco – Storie gastromusicali di musicisti on the road di Francesca Amodio celebra i 25 anni del MEI attraverso gustose testimonianze.

In un’intervista a tre, abbiamo chiesto all’autrice di parlarci di questo insolito viaggio nella musica indipedente italiana che coniuga in modo originale musica e ambito gastronomico.

Leggendo l’elenco dei musicisti che compongono “L’Osteria del palco” ci sono molti nomi dell’undergorund italiano. Ha seguito un criterio particolare nella scelta? E come è stato mettere insieme tante voci?

Parafrasando ciò che dico nella conclusione del libro, scegliere solo venticinque artisti fra i tantissimi che hanno scritto la storia del M.E.I. in questi anni è stato difficilissimo e facilissimo al contempo; difficilissimo perché, inevitabilmente, i nomi rimasti fuori sono stati davvero tanti, ma anche facilissimo, in quanto il criterio di scelta è stato proprio quello di non averne uno: volevo tante voci e le volevo fuori dal coro. Ne “L’Osteria del Palco” c’è Fulminacci, ad esempio, fra le rivelazioni del pop odierno poco più che ventenne, e c’è Enrico Rava, ultraottantenne leggenda del jazz, ed è proprio questo il bello: pur nella diversità della loro musica, entrambi, come tutti gli altri musicisti intervistati, sono accomunati dal fatto di aver realizzato una proposta musicale al di là dei canoni imposti, abbattendo paletti e barriere e dando all’altra fetta di pubblico, che non fosse quello degli adepti delle logiche del mainstream, la possibilità di identificarsi in qualcosa di “altro”.

Qual è il legame che unisce il cibo alla musica?

Il libro si concentra molto sulla vita in tour e quasi tutti gli intervistati hanno parlato di come il fatto di mangiare bene si riversi poi nella riuscita della performance stessa o nel proseguimento della serata, nel caso in cui il momento della cena sia dopo il live; questo perché il cibo, e quindi la tavola, non è solo un discorso alimentare, ma sociologico ed antropologico. Una grande tavolata è sinonimo di convivialità, famiglia, amicizia, ed il musicista in tour cerca sempre di ricreare attorno a sé la famiglia che ha lasciato a casa nel momento della partenza, che spesso si traduce negli uffici stampa, nei fonici, nei promoter e, naturalmente, nella band, tutte persone con cui spesso gli artisti condividono la tavola e quindi, metaforicamente, in quel momento, la vita.

Oltre a contenere i loro racconti culinari, ad ognuno degli artisti e delle artiste che ha intervistato ha anche associato un piatto (come la crema catalana a La Crus e un brasato al pinot nero a Paolo Benvegnù).
Come sono nate queste combinazioni?

L’esperienza culinaria è un’esperienza sensoriale, così come lo è un concerto o la ricezione di un artista.

Un disco ed un piatto hanno moltissimo in comune: entrambi hanno una fruizione relativamente breve che proviene però da una filiera molto più lunga, sono accomunati da tradizione e sperimentazione, dal concetto di incontro e contaminazione. L’associazione è stata per me estremamente naturale; in fase di scrittura, nel momento stesso in cui introducevo un musicista, mi veniva immediatamente facile, quasi automatico, l’abbinamento al piatto. A volte è successo il contrario, mi bastava pensare alla consistenza di un cibo, al suo sapore, alla sua storia, alla sua cromia, per associare il musicista.

Restando in tema, ci può dare “un assaggio” e parlare di un aneddoto particolarmente “gustoso” contenuto nel libro?

Più che uno gustoso, me ne viene in mente uno molto ironico e un po’ macabro legato ai The Zen Circus, di quando mi hanno raccontato della loro osteria del cuore, l’osteria “Da Patrizia” di Piratello, lungo la via Emilia, situata proprio accanto ad un cimitero monumentale; nel ricordo dei tanti pasti consumati lì, insieme a colleghi e tecnici, mi ha divertito molto il fatto che andassero a “digerire” le prelibatezze emiliane proprio con lunghe passeggiate nel cimitero, sempre deserto, pensando, cito testualmente, “alla fine delle cose”.

Francesca Amodio e Omar Pedrini

“L’osteria del palco”, come ha riportato nell’introduzione, è nato durante il primo lockdown e un po’ ricalca la nostalgia e i sentimenti dei suoi protagonisti durante quel periodo, risultando anche un viaggio sentimentale, oltre che gastronomico. Quanto è costato scrivere tutto ciò, in termini di fatica emotiva?

L’esperienza di scrittura durante il lockdown è stata indubbiamente catartica e liberatoria, soprattutto nella fase iniziale delle interviste; questo perché, in quei giorni surreali, parlare di cibo, concerti, musica e tour, era come sostare in un’oasi in mezzo al deserto: un refrigerio, uno sfogo dei pensieri più belli che, almeno per qualche ora, hanno soppiantato quelli più cupi con i ricordi, gli aneddoti e anche le speranze dei musicisti per ciò che sarà il futuro della musica dal vivo nei mesi a venire.

ha poi cucinato e mangiato tutti i piatti ascoltando i dischi dei musicisti intervistati?

Il paradosso di questo libro, che dà ampio spazio al cibo e, in parte, anche al vino, è che io sono una pessima cuoca e, per giunta, anche astemia. In compenso però sono un’ottima forchetta, che dà soddisfazione a chiunque cucini per lei; sono inoltre curiosa, appassionata di gastronomia, mi piace conoscere la storia di un piatto ed i motivi che lo rendono com’è: come dico sempre, scherzando ma dicendo la verità, il piatto che non mi piace devono ancora inventarlo.

Il libro si può acquistare a questo link.

A cura di Diana Russo e Eulalia Cambria