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Tra l’Antartide e i mari: Intervista a Ottodix

“Tu come me credi nei ponti tra le regioni distanti // ma come me fuggi sui monti dalle derive dei continenti” (Isole remote, Entanglement)

Entanglement è un concept album che ha nella navigazione e nel viaggio reale e immaginato il filo conduttore. L’articolato e complesso ultimo lavoro del trevigiano Alessandro Zannier è ricco di allegorie e di allusioni di carattere sociale, ma fruibile sul piano dell’ascolto. Ci siamo fatti raccontare dall’autore quale è stata la genesi del disco e chiesto un’opinione sui limiti e sul futuro dei collegamenti umani che l’attuale crisi sanitaria ha imposto a livello globale.

Entanglement” contiene spunti che appartengono al mondo della scienza, ma anche di natura letteraria, antropologica e, naturalmente, geografica. Quali sono le suggestioni e le fonti che ti hanno portato a scrivere questo concept album? 

Ci sono suggestioni molteplici. Il disco è frutto di un percorso iniziato tre anni fa sulla scia di “Micromega”, il concept album precedente ispirato al mondo della fisica. Sentivo il bisogno di continuare a utilizzare le metafore scientifiche per spiegare il caos e trovare un qualche schema al groviglio di problematiche che affliggono la società di oggi che continua a accelerare-degenerare a velocità esponenziale. Volevo da tempo dedicare un lavoro alla geografia, una delle discipline più dimenticate dalla formazione scolastica attuale, ma che è l’unica (insieme alla storia) in grado di trovare un bandolo della matassa nelle correlazioni tra cause e effetti di avvenimenti catastrofici su scala mondiale. Sono partito dal problema delle migrazioni e mi sono chiesto: perché la gente, da sempre migra? Da lì, al passo successivo: perché le cose, gli animali, le piante, le forze, si spostano, sempre, in natura? La vita è movimento, non c’è nulla di “fermo” nel cosmo. Oltre a ciò, ho letto “Iperoggetti” di Timothy Morton, ho visto Antropocene e riaperto i vecchi atlanti studiando molte mappe, antiche e moderne, e altrettante statistiche. Mi sono figurato la rete degli spostamenti delle cose in scala planetaria, le rotte della navigazione dall’antichità, le connessioni economiche, politiche, le rotte migratorie delle specie, compresa quella umana, quelle del colonialismo, quelle dell’inquinamento, le reti web, satellitari, perfino gli oleodotti. Connessioni che spiegano e creano un intreccio di cause-effetto dalle quali siamo sempre meno immuni. La pandemia ora è l’esempio più lampante, ma lo sono anche Fukushima, Wall Street, la guerra in Libia ecc. Tutte cose che si ripercuotono anche a livello ambientale, da qui agli antipodi e viceversa, in pochi attimi. Il fenomeno dell’entanglement quantistico, in fisica, appunto vuol dire groviglio, intreccio e osserva la stupefacente capacità delle particelle unite all’origine (tutte lo sono, nell’universo), di interagire simultaneamente beffandosi del principio della causalità e dello spazio tempo. Istantaneamente. Una metafora affascinante che ho usato in forma poetico-artistica per spiegare come siamo tutti appartenenti ormai a un unico organismo umano-sociale, in cui non possiamo più pensare di vivere facendola franca alle spalle di qualcos’altro o qualcun altro.

Il disco è anche un’esplorazione delle possibilità e dei limiti della comunicazione. Perché senti che sia necessario parlare di vie e di navigazione? 

Come dicevo, le rotte di navigazione sono le prime ad aver fatto spostare l’uomo verso l’ignoto, alla ricerca di luoghi remoti. Oggi nell’intreccio globale, le zone remote sono isole, intercapedini, sempre più rare alle quali ambire. Ho studiato le isole remote del mondo, le terre inospitali rimaste, mi hanno affascinato molto. Il mare è grande protagonista di questo album, le tracce strumentali sono dedicate agli oceani che fanno da spazio non abitato e connettivo tra i continenti-canzone, ben più densi di parole e di suono. Come nella fisica quantistica il mare è lo spazio non vuoto tra un soggetto e l’altro, tra una terra e l’altra e non separa, ma mette in comunicazione, attraverso continui scambi di informazioni. Pensiamo a quanta strada ci fa risparmiare navigare in superficie sopra paesaggi montuosi, canyon e vallate che formano i fondali, altrimenti difficilmente percorribili. É come volare. Il mare è la linfa della vita nel pianeta. É anche un grande omaggio al sogno fanciullesco del viaggio d’avventura alla Jules Verne, alla “Ventimila leghe sotto i mari”, verso luoghi sconosciuti e lontani. L’iper-piovra della copertina rappresenta sia quel mondo che l’intreccio dell’iperconnessione globale. Minacciosa e affascinante.

Il brano “Pacific Trash Vortex” è un esempio della commistione tra spazio reale e virtuale. Ci vuoi dire di cosa tratta? 

Esattamente. Un parallelismo tra inquinamento “etico e morale” della società web e social e quello ambientale. Il Pacific Trash Vortex è una delle sei macro aree di plastiche galleggianti che infestano i sette mari uccidendo o modificando interi ecosistemi marini. La messa in scena fisica del trash verbale, culturale e morale dell’umanità che oramai comunica in rete attraverso notizie distorte, protagonismi, populismo e cattivo gusto. Spazzatura, appunto. Il disco ha una tracklist precisa di canzoni che sono dedicate a continenti, oceani, isole remote e zone polari, con un itinerario studiato che parte dall’Artide fino all’Antartide, passando anche per il Pacific Trash Vortex, come fosse un vero continente.

Altri temi sono quelli dell’ecologia, ad esempio in “Gengis Khan” .

“Gengis Khan” rappresenta l’Estremo Oriente (ho voluto dedicare due canzoni all’Asia vista la sua estensione; l’altra è “Mesopotamia” per il Medio Oriente). È un ragionamento sulla rapida conquista economica del mondo, innescata da Giappone prima, poi da Cina e Corea del Sud, Hong Kong, Singapore e tutta una fetta del globo totalmente alternativa alla visione eurocentrica della storia che abbiamo noi. Il condottiero mongolo mi sembrava una bella metafora delle antiche mire di conquista che quest’area ha avuto e che ora sembrano ripetersi in forma diversa.

Cito anche il navigatore Zheng He, una sorta di Colombo orientale che pochi di noi conoscono, ma che ha reso grande la Cina centinaia di anni fa. Un paese che ha avuto una crescita nata su modelli occidentali, ma con una rapidità di esecuzione e concretezza sconcertanti nata anche grazie a una filosofia “del collettivo” che noi occidentali non abbiamo, a discapito di ambiente e di diritti umani, spesso. Quello che abbiamo fatto noi in secoli di storia e di colonialismo, ma concentrato in pochi anni e che sta contribuendo alla saturazione rapida del sistema-mondo. É comunque una canzone dai tratti pop-apocalittici, una traccia molto curiosa e piena di rimandi e armonie orientali. E come l’intero disco è strutturata per essere godibile all’ascolto come una semplice canzone, ma intanto “le canta” di santa ragione.

Come sarà il viaggio e come pensi che si trasformeranno i contatti e le relazioni umane dopo la fine della pandemia?  

Bella domanda. Credo che lascerà un segno profondo in tutti noi, ma siamo di fronte a un nemico sconosciuto.

Se riusciremo a domare questo flagello in tempo e a isolarlo come caso a sé, potremmo sperare di tornare a una nuova normalità, memori degli errori che ci hanno portati fino qui. La mia paura tuttavia è che non si riesca a sconfiggere la cosa in tempi utili per affrontare quella dell’anno successivo, simile, ma diversa. Se fosse così sarebbe uno scenario da incubo, un loop che innesca scenari di non ritorno. Un intero pianeta messo in crisi come dopo una guerra mondiale dopo un solo mese di semi-stallo. Dà da pensare, molto. Sospendo il mio giudizio, non essendo un virologo né uno scienziato. Per ora non resta che sperare e limitare i danni, in attesa di scadenze e dati certi.

Tracklist:
1. Permafrost
2. Europhonia
3. Mesopotamia
4. Gengis Khan
5. Sub Pacifica
6. Pacific Trash Vortex
7. Columbus Day
8. Sub Atlantica
9. Isole remote
10. Africa by Night
11. Sub Indiana
12. Maori
13. Antartica
14. Entanglement

Teaser dell’album: