Quella del Palermo Festival è una storia che affonda nel passato per immergersi a piene mani nel presente. Per cercare di raccontare la due giorni che ha risvegliato il capoluogo siciliano dalla sonnolenza della pandemia e smosso folle di giovanissimi sotto il sole cocente di inizio estate, bisogna necessariamente fare un passo indietro di cinquant’anni.

E’ il 1970, lo stadio della città si trasforma in una arena che ospita un grande evento che vede coinvolti un numero di spettatori imprecisato, ma dell’ordine di decine di migliaia. Il motivo di questo enorme afflusso è prima di tutto la scaletta. Inebriato dai venti marini che spirano da Mondello e dalla vista del Castello Utveggio che svetta su Monte Pellegrino, il palco vede nomi del calibro di Aretha Franklin, Arthur Bown, Duke Ellington e Black Sabbath.
Nel prato sono sedute ragazze coi fiori in testa e occhialoni colorati, coppie innamorate che si scambiano baci apassionati sotto l’ebrezza di una stagione che ha raccolto i semi di quella Summer of Love partita dall’Inghilterra e da Woodstock e che cerca di fare proprio di una città del sud l’esperimento per portare anche in Italia la grande musica internazionale. La magia si ripete per un altro anno ancora, poi finisce, come tutte le cose belle e irripetibili.

Spostiamoci adesso in avanti. Molti anni dopo quelle due edizioni del Palermo Pop, nei mesi più difficili che la nostra generazione si trova a vivere, una pagina Facebook cattura la mia attenzione. Sul profilo c’è una foto in bianco e nero e di colpo il ricordo ormai lontanissimo, temporalmente e materialmente rispetto al presente, assume un immagine meno sfocata. Parla di live, di emozioni sotto il palco, di un pubblico chiamato a riempire un’intero stadio.
Non sembrava davvero possibile, ma a distanza di due anni siamo qui a raccontarlo. L’associazione Palermo Festival ha raggiunto il suo obiettivo. il 17 e il 18 La Favorita o meglio, il Renzo Barbera, che ha visto accendersi gli entusiasmi per il passaggio in B del Palermo calcio soltanto pochi giorni prima, è di nuovo il centro della musica. Un centro che è quindi per definizione inclusivo, accoglie tutta la cittadinanza senza rappresentare una nicchia. Per questo la line up è orizzontale, abbraccia generi diversi, accontenta un po’ tutti.

Il primo giorno, venerdì 17, senza bisogno di riti scaramantici, arriva il momento di fare festa. L’esterno della curva nord è inondato dai colori accesi del Color Party; un momento liberatorio e danzante in cui un djset anni ’90 realizzato da Radio Time risuona di sottofondo mentre una spruzzata di colori vivaci inonda le magliette bianche che vengono distribuite per l’occasione. E’ solo l’inizio a quello che avverrà il giorno successivo, sabato 18, quando un cartellone denso di musicisti e altri dj sarà chiamato ad esibirsi sul palco montato al centro del prato.
La fila per entrare è un po’ lunga, ma mi fornisce l’occasione per osservare il pubblico. Se le foto del 1970 si mettessero a confronto con quelle di oggi (come hanno fatto su Ig gli organizzatori) mostrerebbero che nulla in fondo è cambiato. Le luci che lampeggiano sui volti dei giovani, persino le loro acconciature e l’abbigliamento scelto per fronteggiare il caldo torrido, non sono poi tanto diverse. La dimensione totale e trasversale dell’evento mostra un inventario variegato di magliette rock e metal, di attitudine punk e, natualmente, estroso trend contemporaneo.

Le porte dello stadio si aprono già la mattina alle 11:00. Prima di entrare decido di passare al Marlon Vintage Store per fare incetta di vinili. Una volta superato l’ingresso, una persona anziana, con un enorme sorriso stampato in faccia, mi passa il suo cellulare e mi chiede fargli una foto davanti la porta sotto la curva. E’ ancora giorno e sul main stage si sta esibendo Nitro. Subito dopo dal palco arrivano i suoni di un orchestra di fiati. Alessio Bondì incanta tutti con i suoi brani cantautoriali che contengono testi in siciliano e raccontano di luoghi e di ambienti della città con una dose di ironia, come “Taverna vita eterna“, dedicato alla Taverna Azzurra il celebre bar della Vucciria che si anima tutte le sere. Arrivati all’ora del tramonto, quando le ombre iniziano a disegnarsi sugli spalti e le luci si accendono, è il turno di “200 voti“, un brano lento e romantico che riscalda l’atmosfera e rilassa gli animi.
Prima di passare all’esibizione successiva, tra uno scroscio di applausi, sul palco compare il signore che poco prima avevo incontrato sul prato. Scopro che è Sergio Buonadonna, l’autore del libro “Quando Palermo sognò di essere Woodstock“, uno degli organizzatori del Palermo Pop. Racconta alcuni retroscena dei protagonisti del Festival del 1970, come quelli che videro coinvolti Fausto Leali e i Black Sabbath che si trovano a condividere lo stesso palco a poca distanza o gli interventi della polizia quando Arthur Borwn si denudò davanti al pubblico mentre cantava una canzone ispirata al fuoco purificatore.

Il momento revival infiamma i più rockettari tra i presenti: dalle casse (l’acustica è buona, nonostante l’estensione del luogo) escono i Nirvana e i Led Zeppelin. Sotto il palco si addensa intanto una folla consistente. E’ tempo dell’esibizione dei The Zen Circus. Molti gli aneddoti, tra cui ricordo di un viaggio in camper proprio in direzione di Palermo all’inizio della loro carriera, lunga ormai 20 anni, e il riferimento all’omonimia del nome della band con il quartiere della città. La scaletta è ricca e coinvolgente. Si parte da “La terza guerra mondiale“, per proseguire poi con “Catene“, “Vent’anni“, “Andate tutti affanculo“. Il rock sagace fitto di testi irriverenti della band regala altre perle: con ritmo serrato vengono suonati “Non“, “Ragazzo eroe“, “figlio di puttana“. Alla fine dello show i ragazzi salutano dicendo: “ci vediamo più tardi alla Vucciria!“.
Prima dell’ultimo boato è il momento di rilassarsi al buio sopra il prato o in alternativa, scaternarsi sotto il palco, dove una serie di Dj (Mambolosco, Noche De Travesura) – e il team Popshock – portano al Palermo Festival una dose di reggaeton. L’ultimo artista che sta per arrivare spinge a non desistere di fronte alla stanchezza che inizia a farsi sentire. Introdotto da Dirt O’Malley, giovane rapper palermitano che presenta anche un suo nuovo inedito, è finalmente il momento di Mace. Il producer milanese incanta il pubblico con una sequenza di brani elettronici tratta da “Oltre“; da “Breakthrough” a “Giungla Digitale“. Il set arriva a placare ogni tensione grazie a una raffinata elettronica che associa beat languidi e meditativi a momenti pulsanti che spingono anche i più restii a ballare. Il pensiero che si agita in testa è quello di stare assistendo a un concerto che difficilmente verrà dimenticato. Le luci rendono lo Stadio Renzo Barbera un anfratto caledoscopico dove finalmente la musica diventa il rifugio in cui abitare. In chiusura arrivano i brani tratti da “Obe“, mentre il feat. con Rkomi e Venerus “Non vivo più sulla terra” è il modo migliore per congedare il pubblico.

L’edizione zero di questo Palermo Festival è partita con il giusto piede. Il desiderio di tutti è che il sogno continui e non si fermi come è stato molti anni orsono e che la città si riappropri di uno spazio accogliente adibito a tempio della musica. L’augurio è che il Festival possa aprirsi a una dimensione internazionale, magari appianando quelle incongruità di generi nella line up, ma senza perdere il respiro inclusivo che lo caratterizza.
Ci vediamo nel 2023!

Testo e foto di Eulalia Cambria
Grafica di copertina di Marta Miseo