OBE è il disco di cui tutti stanno parlando nelle bolle social un po’ più hipster e hip-hoppettare: è sicuramente la prima volta che Simone Mace balza così agli onori della cronaca, nonostante giri da parecchio tempo e anche anagraficamente non sia più di primissimo pelo. È un veterano che ha fatto un po’ di tutto. Tutto questo per dire che si tratta di un personaggio che l’hip hop – quello vero – lo ha masticato, ma non si è mai accontentato di fare il talebano, che di hit se ne intende e che gode sia di credibilità che di appeal radiofonico.

OBE, acronimo invero un po’ pretenziosetto di Out of Body Experience, esce per la Universal e rappresenta un episodio molto particolare nel giro trap-pop-urban-hip hop-quellochevolete per una serie di peculiarità che lo rendono un piccolo unicum. È il disco di un produttore che come dicevamo è “old-school” nel senso primigenio del termine, che qui chiama a raduno tutta una serie di nomi ospiti tra veterani e nuove leve (Blanco ha solo diciassette anni) per assecondare un’idea trasversale. Non mero mixtape quindi, ma vero e proprio concept. Va detto però che il concept è portato avanti più a livello di suono che di contenuti: se ci si aspettava un’approfondita disamina sui viaggioni psichedelici promessi dal titolo, si casca male (ad eccezione di un paio di brani).
La coerenza a livello sonoro è quindi quello che fa quagliare il tutto: le produzioni sono eccellenti e molto variegate, forse fin troppo. Perché se è palpabile la visione di insieme alla base, nondimeno si avverte una certa sconclusionatezza nella resa finale. L’effetto macedonia c’è ed è bello ingombrante, resta però il fatto che di macedonia molto ben assemblata si tratti. Gli strumenti suonati e gli elementi digitali sono tra loro molto bene amalgamati, confezionando una matassa inestricabile (in senso positivo). In tutto ciò resta lampante l’estrema potabilità del tutto: se nelle intenzioni non si tratta di un disco pensato come una raccolta di hit, comunque è innegabile che tutti (ma proprio tutti) i brani presenti potrebbero passare in radio con risultati eccellenti.
In tutto questo l’altra componente decisiva sono le ospitate, altalenanti molto più delle produzioni. Si passa da consolidate certezze in positivo (Venerus, Ernia, Rkomi, Madame) a episodi decisamente meno felici. Da Gemitaiz che conferma una volta di più (casomai ce ne fosse ancora bisogno) uno stato di forma non smagliante che dura ormai da un lustro abbondante, a Guè Pequeno che proprio non riesce a non infilare ogni volta una rima tristemente imbarazzante («Noi ci puntiamo il dito, ho sempre puntato al clito»). Per non parlare di bambinate male assortite, con perle come «Il giorno che mi shottano morirà la trap» e simili. Va bene voler arrivare anche ai ragazzini, ma Santo Cielo. Ci può comunque stare tutto: se questi sono i lavori che passeranno in radio, ad averne.
In questo senso il lavoro di Mace va preso per quello che è: non un discone for the ages, ma un ottimo prodotto pop. O, se si preferisce, la risposta intelligente a Famoso di Sfera Ebbasta. Deve piacere a tutti i costi? No. Ce n’era bisogno? Probabilmente sì, perché aiuta ad alzare di un bel po’ un’asticella qualitativa posizionata molto in basso.
Beatrice Giordo