Europe’s fight against terrorism

di Sonia Curzel

L’emiciclo del Parlamento Europeo di Strasburgo si è fatto teatro di molte conferenze nei due giorni dello European Youth Event. Una di queste è stata “Europe’s fight against terror: Die another day”.

Tra i relatori c’erano Rajan Basra, un ricercatore del King’s College a Londra al centro internazionale per lo studio della radicalizzazione e Simòn Cabrera Ebers, dell’organizzazione Fryshuset che si occupa di deradicalizzazione e reintegrazione degli estremisti nella società. La seduta era moderata dalla giornalista francese Leila Ghandi. La caratteristica di questa conferenza è stata la grande partecipazione del pubblico, gli interventi e le domande sono state parecchie, da quelle sul rapporto tra sicurezza e libertà all’intervento di contestazione dei rappresentanti del Front National.

 

Una questione sollevata è stata quella del motivo e del modo in cui si diventa terroristi. I relatori hanno girato la questione, chiedendoci come mai non tutti coloro che vengono discriminati diventano terroristi. Non c’è una ricetta con degli ingredienti necessari per creare un terrorista. Ovviamente dipende da caso a caso, ma solitamente alla base c’è il bisogno di trovare un’appartenenza, un’identità che viene data quando si entra nel gruppo estremista con un “pacchetto” di sicurezze prestabilite. Le dinamiche di isolamento sono alla base del terrorismo, e la responsabilità sta anche in chi in prima persona non accoglie.

 

Spesso parlando di terroristi ed estremisti si sente il classico: “dovremmo metterli in una cella e buttare via la chiave”, ma essendo noi parte di una società di diritto queste persone prima o poi dovranno uscire di prigione e avranno estreme difficoltà ad integrarsi nella società. Non solo, nelle prigioni si rischia la radicalizzazione, che porta ad episodi di violenza. É quindi necessario “normalizzare la deradicalizzazione”, spiegare a chi si trova in questi gruppi come ci si comporta nella società normale e fare un’enorme opera di rieducazione sia loro tempo in prigione che fuori.

 

All’interno di queste organizzazioni si è portati a pensare in bianco o nero, in termini di noi e loro, di chi ha ragione e ha torto, a tagliare i legami con la società, deumanizzare il nemico e adottare un’ideologia. Da parte nostra però è altrettanto facile cadere in un tipo di narrativa simile, dando la colpa per il terrorismo a intere regioni o religioni. L’educazione è estremamente importante per lavorare su questo punto, e lo è ancora di più essere resilienti, rifiutare di cadere nella paura e nella divisione, e soprattutto sottolineare quanto sia importante l’identità condivisa. Nessuno dovrebbe costringerci a essere solo bianchi o neri o musulmani o cristiani, possiamo avere identità multiple.

Nonostante tutte queste belle parole però la paura rimane, e se non ci si è ancora accordati su una definizione globale di terrorismo, figuriamoci una strategia per combatterlo. Un’ idea ce l’ha data il ragazzo afghano che ha preso la parola poco prima della fine dell’incontro: “Parliamoci a vicenda, condividiamo, informiamo, non chiudiamoci”.