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Chi ha ucciso l’Indie italiano?

Tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo sentito l’espressione indie, parlando della nuova scena musicale italiana. I più appassionati, o almeno chi la segue da più tempo, avrà anche sentito l’altra espressione più frequente “l’indie è morto“. Il fatto è che la musica indie nemmeno esiste. O meglio, esiste, ma non come tutti siamo abituati a concepirla. Mi tocca sempre impelagarmi in discussioni sterili per far capire alla gente che non si tratta di un genere. Cosmo e Vasco Brondi sono diametralmente opposti e i FASK non si possono mettere sullo stesso piano di Galeffi, questo mi pare evidente. A quanto pare non è così.
In ogni caso qualcuno l’ha uccisa. La domanda è chi ha ucciso l’indie italiano?

Scherzando potrei dirvi che è stato Tommaso Paradiso (di lui ne abbiamo parlato anche qui) e probabilmente molti di voi sarebbero d’accordo, ma, ovviamente, c’è di più. La musica indie ha perso la sua connotazione originale, è diventata una moda, un vero e proprio fenomeno. Parlando con vari amici ho capito che non si tratta nemmeno più di musica, si è andati oltre. Una canzone con delle frasi sconnesse tra loro? Indie. Un artista, uomo o donna che sia, che indossa vestiti colorati non di marca? Indie. Un album nostalgico degli anni 80? Indie. Capello lungo, barba, baffi, frangetta, camicie a fiori? Indie. Partendo da questo presupposto per certi versi anche Franco Battiato dovrebbe essere considerato indie.

Quando si parla di fenomeni, si sa, nessuno è in grado di capirne il momento esatto della loro nascita. A quanto ne so, però, prima della canzone Sono così indie dei regaz di Lo Stato Sociale (datata 2010) non credo in Italia qualcuno l’avesse mai usata per indicare uno “status”. La musica indie era la musica indipendente che, per la cronaca, è sempre esistita.

A quanto pare il grande cambiamento è avvenuto nel 2015 quando a Radio Deejay è stata passata Cosa mi manchi a fare di Calcutta. Da quel momento il caro vecchio pop è stato spodestato, lasciando spazio all’indie, diventato poi Indie 2.0 e successivamente ItPop. Dal 2015 ne è passata di acqua sotto i ponti. La nicchia indipendente si è sgretolata, non esiste più. O forse esiste ancora da qualche parte, perché bisogna ammetterlo, il sottobosco di artisti della scena italiana è vastissimo e molti di loro, ne sono sicura, sfonderanno a breve. Artisti come Calcutta, Levante, Thegiornalisti (protagonisti dell’abbandono più chiacchierato dello scorso anno), Brunori SAS, hanno suonato in palazzetti, all’Arena di Verona, al Circo Massimo, hanno vinto premi, calcato il palco di Sanremo.

A onor del vero gruppi come Baustelle, Subsonica, Marlene Kuntz, Prozac+, Afterhours e altri sono sempre stati presenti nelle radio italiane, nella cultura di massa. Ma non si è mai creato un vero e proprio fenomeno, forse perché le major non avevano ancora capito che la musica indipendente sarebbe potuta diventare la loro gallina dalle uova d’oro.

Il merito di tutto ciò è anche dei social network e di Spotify (pensate che nel 2017 era un gruppo Facebook con più di 30000 iscritti che dettava la linea della scena italiana, sì parlo proprio di Diesagiowave). La musica oggi è accessibile davvero a chiunque, tutti possono suonare e tutti possono cantare (anche Valeria Marini, ma questa è un’altra storia…). Questa è l’offerta perfetta per una domanda sempre più esigente.

Il fatto è che siamo noi l’audience, creiamo noi la domanda. E se c’è chi aspetta invano il quarto album dei Cani da oltre quattro anni, c’è anche chi pretende che il proprio artista preferito pubblichi singoli nuovi ogni paio di mesi. E non solo. C’è chi chiede costantemente che questi artisti diventino icone di un qualcosa che non si sa bene cos’è, che ispirino e rivelino le verità del mondo e come far finire la cattiveria che ci opprime.
L’indie ha dato tutto questo a chi, in un mondo in cui l’apparenza, il volersi distinguere dalla massa e il voler essere alternativi sono ormai diventati la normalità, voleva sentirsi parte di una nicchia.

Per concludere qual è la risposta alla nostra domanda allora? In realtà è facile. Noi abbiamo ucciso l’indie (ok magari non solo noi come audience, ve lo concedo). Con il nostro utilizzo sbagliato e malsano del termine, il nostro irrefrenabile desiderio di distinguerci dalla massa e la nostra speranza che un giorno potremmo tornare ad ascoltare artisti oggettivamente discutibili con altre dieci persone in posti strani per sentirci di nuovo, per l’ultima volta, sopra le righe.

Diana Russo