Berlinale 75: Delicious

“Noi siamo tanti. E voi siete pochi.”

Ma precisamente…noi e voi chi?

Berlinale 75, siamo a Berlino, in sala c’è Delicious, esordio alla regia di Nele Mueller-Stöfen, film in coproduzione Germania, Inghilterra, Francia, e primo film Netflix selezionato nella sezione Panorama, la più popolare del festival.

Una famiglia ricca, un incidente e valori in crisi

In Germania una protesta si consuma nelle strade mentre una ricca famiglia tedesca, al sicuro nella macchina blindata, osserva lo scontro dai finestrini. La coppia, con i loro due figli, è diretta verso il sud della Francia, nella villa di famiglia dove trascorreranno le vacanze estive. 

Tra le colline assolate la famiglia si gode le vacanze, fra passeggiate e tuffi in piscina. Una sera, di rientro da una cena, investono inavvertitamente una ragazza. La giovane, di nome Teodora, si è ferita a un braccio e i coniugi decidono di portarla a casa e persuaderla ad accettare i loro soldi e a non denunciarli. La ragazza però, dopo aver perso il lavoro a causa dell’incidente, si propone di lavorare da loro come domestica. I due, alle strette, accettano titubanti.

Teodora dopo un primo momento di tensione si integra rapidamente, stringendo legami individuali con ogni membro della famiglia. Tenta di instaurare un rapporto di complicità con i figli, il più grande, adolescente, cede presto al desiderio, mentre la più piccola resta scettica. Con la coppia, il registro è ben diverso: Teodora deve dimostrarsi una persona affidabile, quasi un confessore. Ascolta il padre sfogarsi per i problemi che ha in famiglia e a lavoro, lei lo lusinga e lo accompagna nelle sue consuete escursioni in bicicletta. Con la donna invece recita la parte dell’amica fidata, la invita a cena e poi le propone una serata in discoteca, presentandola al suo gruppo di amici e a Lucien, un giovane del posto che si approccia a lei.

Lentamente Teodora diventa parte della famiglia, mettendone in crisi i valori e accompagnandola per mano verso una disfatta inesorabile.

Un collage di stereotipi: le valutazioni su Delicious (e perché non decolla)

Delicious ha delle premesse interessanti; certo nulla di originale, il nocciolo della trama viene da Teorema che prima di tutti – parliamo di circa 60 anni fa – aveva scelto una simile messa in scena per raccontare la crisi dell’unità famigliare di quegli anni – e molto altro ma eviterei di scomodare Pasolini.

I riferimenti ad altri immaginari sono diversi, lungo il filone recente del cinema mainstream-ma-anche-un-po’-sofisticato – il giusto sforzo ma senza esagerare – e, per qualche ardito, anche “po-li-ti-co” – il concetto va pronunciato sillabando come è scritto, altrimenti l’interlocutore potrebbe non percepire l’impegno.

E quindi c’è un po’ di Parasite e affini, parecchio di Guadagnino, da Call me by your name a A bigger splash a Bones and all – tra le altre cose la frutta succosa di Call me by your name ritorna in maniera più volgare anche qui. C’è giusto un vago ricordo, e nient’altro, di Raw, l’incredibile film di Julia Ducournau, la regista di Titane, Palma d’oro 2021. C’è qualcosa anche di Speak No Evil (2022), un soggetto danese talmente compatto e cristallino da aver prodotto un remake americano nel giro di un anno.

Ma perché ci ritroviamo a citare 7 film (8 col remake) per parlare di Delicious? Perché le premesse sono interessanti, il set up è buono, tecnicamente nulla da dire, le giuste patine, le geometrie “corrette” ma oltre questo non c’è molto altro.

Il film è un collage di stereotipi recenti che funzionano un po’ ovunque negli ultimi anni: la famiglia ricca assediata dagli invasori, il flirt costante tra due mondi così distanti, il mostro abominevole che lo spettatore attende di vedere uscir fuori da un simile amplesso.

Di solito questi film fanno a gara a chi partorisce il mostro più grosso, il finale più “disturbante”, la rivelazione più shoccante e, nella pratica, la morte più atroce del ricco di turno. E questa sub-lotta di classe è insipida, le è rimasto solo l’involucro, non rappresenta nessuno e non fa guerra a nessuno – “noi siamo tanti, e voi siete pochi” è la frase approssimativa che Teodora pronuncia poco prima del finale. Il ricco non rappresenta più niente, il povero neppure. Sono cartonati che fanno il verso a qualcosa di estremamente più complesso e stratificato, soprattutto legittimo, un verso che oggi, in una società ri-de-costruita, risulta quanto mai ridicolo e fuori tempo massimo. 

Un home invasion ricchi dentro vs poveri fuori, tra le colline francesi, la grande casa e la piscina di A bigger splash, al cui interno però avvenivano molte più cose. La logline funziona e le references anche ma si sono dimenticati di costruire qualcosa in più di un semplice mash up. Ricordiamolo, è un prodotto della grande N, il diktat è uscirne sempre puliti, un colpo al cerchio e uno alla botte, e via dicendo. E allora perché dà così fastidio un simile prodotto?

Perché i vecchi temi sono scaduti e hanno perso la loro linfa vitale, lasciando solo la corteccia, vuota e infeconda, e i temi nuovi hanno grossi problemi di rappresentazione, sia di sé stessi che di chi se ne dovrebbe o non dovrebbe sentir parte.

E allora cosa rimane?

Rimangono una serie di prodotti vendibili, da postare sui social, ognuno con il suo pantone abbinato, accoppiati a un pacchetto completo, comprensivo di ogni interesse, popolare o di nicchia, rinnovabile in ogni istante, e nessuno se ne salva.

I cinefili hanno il Cinema Troisi di Roma per vedere In the mood for love per la sesta volta da quando ne hanno sentito parlare, una settimana prima, e si abbonano a Mubi per poterlo rivedere ; quelli a cui piace Harmony Korine – chi? – e il venerdì sera con gli scaldamuscoli e le sneaker chunky vanno al centro sociale più vicino per parlarne e i discorsi si concludono tutti con “morte ae guardie”; la ragazza del nord appassionata di cinepanettoni – perché, sai, dopo un po’ la roba brutta fa il giro e diventa quasi graziosa- con un vago fatish per Berlusconi però vota Emma Bonino; chi è appassionato di Angelo Duro e basta non c’è altro da aggiungere ma intanto è primo al box office del 2025 – c’è ancora speranza, si fa per dire.

Il pacchetto modello Netflix e co c’è per tutti, per chi ci sta dentro e per chi lo respinge, apocalittici o integrati – pace all’anima di Eco – è irrilevante da che parte tu sia. Insomma, il nostro film della Berlinale 75 è parte di quella roba là, un consumo superfit di opere speziate e coloratissime, brasate, sfrigolanti ma che non sanno di niente, delizioso!

Piermaria Rasetti