Il quid
Partiamo da un assunto fondamentale: andare alla Berlinale non è solo andare alla Berlinale.
La Berlinale sono i meno tre gradi a mezzogiorno, il ghiaccio nelle strade, i 5/10 mezzi di trasporto da prendere per raggiungere la costellazione di sale posizionate strategicamente a chilometri l’una dall’altra, lo sciopero e i volti incredibili che incontri sul tuo percorso.
Ecco, chi va alla Berlinale deve essere più cinefilo di tutti gli altri.
Cannes è una città costiera e il festival si tiene a maggio, ma è molto costosa, quindi i cinefili di Cannes possono competere con quelli della Berlinale.
E poi c’è il Lago film fest (e affini), quelli sono i più cinefili di tutti, perché obiettivamente chi è che va a quei festival?
Detto questo, capiamo che il valore intrinseco di un’arte come il cinema risulta pressoché sostituito dal suo valore estrinseco: dalla considerazione che riceve chi ne usufruisce agli occhi di qualcun altro e, in pratica, da ragionamenti assurdi ma inconsci e così diffusi, analoghi al sopraccitato.
Ma a volte trovi un quid (c’è ma non si vede, credo) che torna a dare un senso alle cose, a restituirne un valore. A volte leggi L’ultima lezione. La vita spiegata da un uomo che muore, di Randy Pausch, altre volte vedi Orpheus in the Underworld (Orpheus in der Underwelt nel titolo originale tedesco) del 1974, e il valore delle cose riemerge.
Siamo ancora alla Berlinale. Questa volta è la sezione Retrospective ad attirare la nostra attenzione, in particolare il musical Orpheus in der Unterwelt.
Per capirci, parliamo di un film ispirato all’opera che ha reso celebre nel mondo il cancan: il film, diretto da Horst Bonnet, è infatti l’adattamento cinematografico dell’operetta omonima, rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1858 e scritta da Ludovic Halévy e Hector Crémieux, con le musiche di Jacques Offenbach, autore del celeberrimo brano.
Rileggere il mito
Ambientato durante la Belle Époque francese, in un’immaginaria Tebe di atmosfera parigina, il film riprende la storia dell’operetta omonima, che si svolgeva nell’antica Grecia e rielaborava parodisticamente il mito di Orfeo e Euridice.
Orfeo è un celebre violinista e maestro di musica, molto apprezzato nella comunità, che si gode il successo e la compagnia delle sue giovani studentesse, che lo venerano. È sposato con Euridice, che trascorre le giornate a casa, da sola, attendendo il marito.
Tra i coniugi l’amore è svanito da un pezzo e, mentre il marito è fuori a divertirsi, Euridice ha conosciuto un pastore, Aristeo, che vive sulle colline vicine ed è presto diventato suo amante. Lei è infelice e desidera ardentemente vivere con il pastore, abbandonando il marito, ma quest’ultimo non ha alcuna intenzione di separarsi a causa degli elevati costi del divorzio.
Aristeo si rivela in realtà Plutone e fa mordere Euridice da un serpente per portarla con sé nell’Oltretomba. Orfeo è euforico e organizza una festa: la sua reputazione è salva e può tornare a dedicarsi alle sue allieve.
Un saggio musicista e inventore, che ha seguito l’intera vicenda da una mongolfiera sopra la città e che poi si rivela essere lo stesso Offenbach, si cala sull’abitazione di Orfeo e lo convince a riconquistare Euridice e a salvare la propria reputazione. Dopotutto, un vedovo che fa lezione a giovani studentesse potrebbe essere mal visto dalla popolazione e, soprattutto, perché sui libri di mitologia c’è scritto così.
I due, sulla mongolfiera, chiedono quindi udienza sull’Olimpo. Ad attenderli c’è una comunità di divinità ridotta al degrado: vecchie e vecchi imbellettati, debosciati e consumati dai vizi, che persistono nel loro teatrino celeste, conservando scudi, tuniche e vari orpelli.
Giove, re degli dèi, è un despota ormai stanco, in crisi con l’anziana moglie Giunone a causa dei suoi svariati tradimenti e sotto accusa dall’intero Olimpo, ormai insofferente al suo potere e al nettare e all’ambrosia che propina da millenni. Si è sparsa la voce che una fanciulla di Tebe è stata rapita da un dio, e i sospetti ricadono su di lui.
Quando Orfeo raggiunge l’Olimpo e chiede di poter passare nel regno dei morti per riconquistare la sua amata, Giove, liberato da ogni accusa, decide non solo di aiutarlo, ma di organizzare una gigantesca spedizione con tutta la corte degli dèi verso il regno dei morti, su invito del dio dell’Oltretomba, per una festa indimenticabile.
Ad attenderli ci sarà Plutone, che tiene prigioniera Euridice, ormai pentita della sua scelta, e che ha in serbo per i suoi ospiti un banchetto smisurato e l’esibizione di un nuovissimo ballo infernale.
Una satira su pellicola 70m
Sullo sfondo di una Tebe colorata e frenetica, nello spazio celeste dell’Olimpo e nelle profondità infernali, noi spettatori seguiamo estasiati il viaggio lussurioso e comico di Orfeo, non il giovane e bellissimo cantore raccontato da Virgilio e Ovidio (e su cui la letteratura è tornata in forme diverse per secoli), ma un vecchio marpione, con due baffi grigi e il violino sempre al fianco, con cui affligge Euridice, ormai sfinita dalle pedanterie musicali del marito.
L’Olimpo è la corte di un after party tra colonne doriche e bassorilievi, un circo di buffoni improbabili, generali in pensione e lacchè smidollati (vedi Mercurio), e un memorabile Giove, stanco di tutto tranne che di assaporare nuovi amori. Tutti hanno palesemente i postumi della sera prima o sono ancora ubriachi di nettare e ambrosia, le espressioni inebetite e le guance rosate.
È una microsocietà che regge il proprio ruolo per inerzia: nessuno li venera più, qualcuno dubita persino della loro esistenza, le loro vite infinite sembrano quasi uno scherzo, Diana è raggirata dai suoi fratelli perché perdutamente innamorata di un mortale, Venere e Ares, fratellastri, sono scherniti dallo stesso Giove perché sorpresi ad amoreggiare in un parco. Nulla è rimasto dei fasti di un tempo, bellezza e vigore svaniti per sempre.
È significativo l’arrivo di Orfeo che spinge gli abitanti dell’Olimpo ad assumere le pose con cui sono da sempre ricordati, e quindi tutti alle prese col risistemarsi le tuniche, a pulirsi dagli strascichi della sera prima, a raddrizzare gli elmi e a mettersi sull’attenti. L’accoglienza riservata a Orfeo è un meraviglioso tableau vivant, che riesce a conservare le apparenze per miracolo.
L’opera teatrale fu una satira feroce alla società dell’epoca, la Francia di Napoleone III, alle disuguaglianze tra una popolazione ridotta alla fame e una gerontocrazia aristocratica che gode di ogni benessere. Un secolo più tardi, quella stessa satira coglie i medesimi squilibri, con una classe dirigente, quella della Germania dell’Est del dopoguerra, impegnata a gozzovigliare mentre la classe operaia, al piano terra, nelle strade, soffre la fame.
La rappresentazione di Tebe, dell’Olimpo e dell’Oltretomba è memorabile: una fotografia luminosa e una scelta dei colori più vividi – è complice la qualità della pellicola 70 mm, utilizzata dalla società di produzione DEFA per l’ultima volta con questo film – si accompagnano ad una gestione dello spazio scenico quasi teatrale, con decine di attori e comparse in gioco, sfruttando a pieno la profondità di campo, verso fondali disegnati, che riproducono i tetti parigini o la volta celeste dell’Olimpo.
La commistione di apparati scenici presi dalla mitologia classica e tecnologie di fine Ottocento, come mongolfiere, o anemometri portatili (strumenti adoperati per misurare la velocità del vento, per capirci) è di assoluto pregio.
L’eccesso e lo sfarzo sono una costante delle interpretazioni degli attori, che si muovono nel profilmico in preda a passioni e turbolenze, soprattutto mossi da un costante desiderio carnale. Tutti i comprimari tentano di raggiungere il godimento della carne: la lussuria e la gola sono protagoniste assolute. Per esprimere simili desideri ci sono la musica e il canto, brani di pregio e di irresistibile comicità e il maestoso cancan all’Inferno.
La farsa è la modalità attraverso la quale si dipana l’intera storia, strizzando l’occhio ad un metadialogo che certi personaggi conducono, specie Offenback, facendo riferimento ai libri di mitologia e persino ai film che la storia di Orfeo potrebbe ispirare.
Il quid che dà senso alle cose
Orpheus in der Underwelt dipinge la realtà del suo e di ogni tempo in maniera dissacrante, pescando da un mito incensato e da sempre simbolo dello struggimento amoroso e della fedeltà coniugale: nella tradizione letteraria, dopo la perdita di Euridice, Orfeo si allontana definitivamente da qualsiasi relazione amorosa (oppure, come nella versione di Ovidio in cui Orfeo si dedicherà unicamente all’amore omoerotico) per poi finire fatto a pezzi da donne che nutrono per lui sentimenti non ricambiati.
Il nostro Orfeo è dedito a passioni extraconiugali, come la stessa Euridice, corteggiata prima dal dio dell’Oltretomba e poi dal re dell’Olimpo e così i comprimari e l’intero mondo narrato sono sospinti dai propri lombi verso il calore del prossimo, abbandonandosi agli eccessi.
È un mondo vizioso, imperfetto e irreale ma incredibilmente più vivo e allegro di quello che prima Offenback e poi Bonnett prendevano di mira.
E mentre il sottotesto rimanda ad un extra-testuale – la società di Napoleone III e la classe dirigente della Germania dell’Est – senza il quale questo film risulterebbe in parte monco d’intenti, Orpheus in der Underwelt e il suo cinema rivelano una compattezza di espressione e di contenuto che esistono, in quanto tali, anche di fronte alla morte delle aristocrazie, al rinnovo delle classi dirigenti, ai festival che ti rendono più o meno cinefilo degli altri e allo scorrere del tempo.
È il loro valore intrinseco, il quid che dà senso alle cose.
Piermaria Rasetti