Nella sezione competitiva “Per il cinema italiano” del Bif&st 2025, abbiamo scovato una piccola perla che forse rischiava di nascondersi tra le proiezioni maggiori.
Stiamo parlando di Fratelli di culla, un docufilm di Alessandro Piva che ricostruisce la storia del brefotrofio di Bari.
Un racconto breve ma intenso
Il docufilm, in soli 62 minuti, fornisce un racconto breve ma intenso, ricco di temi, spunti e questioni ancora irrisolte, attraverso le voci dei protagonisti che hanno vissuto questo luogo liminare.
Il brefotrofio di Bari è stato attivo nel Novecento, con il picco massimo in corrispondenza del boom demografico dal secondo dopoguerra agli anni Settanta, arrivando ad ospitare fino a 160 infanti, dai neonati ai bambini fino a tre anni.
Entriamo così nella storia di una struttura che ha rappresentato un punto di riferimento per molte donne impossibilitate a garantire cure ai propri figli; un cuore che ha pulsato di vita per decenni, nonché un vero fiore all’occhiello della città, con dei sistemi all’avanguardia, per l’epoca, come le incubatrici per i cosiddetti “immaturi”, i bambini nati precocemente e bisognosi di assistenza specifica.
Emerge così il forte legame del brefotrofio con il territorio circostante, ma la sua realtà locale rispecchia anche i cambiamenti sociali che hanno accompagnato l’evoluzione storica del nostro Paese: la diffusione dei metodi contraccettivi, la liberalizzazione dell’IVG, il miglioramento delle condizioni socioeconomiche e il calo demografico hanno portato la struttura a un graduale ridimensionamento, fino alla chiusura tra la fine degli anni ’90 e i primi 2000.
Il tema dell’identità: un luogo liminare
Il docufilm ci parla quindi dei rapporti del brefotrofio con il territorio, con le innovazioni scientifiche, con la comunità sociale e i suoi cambiamenti, ma ci parla soprattutto di identità.
In primo luogo, ci parla dell’identità del brefotrofio: come intendere questo luogo? La scritta Istituto Provinciale per l’Infanzia che campeggia all’ingresso dell’edificio certamente non esaurisce la complessità di questo spazio. Per decine di anni qui c’è stato un viavai di neonati e infanti, che spesso avranno conservato pochi ricordi, se non nessuno: è allora un non-luogo, per dirla con Augé? Ma ancora, probabilmente questa etichetta non basta: per delle persone, per quanto di tenerissima età, questa è stata casa negli anni magari non memorabili, ma certamente fondamentali della prima infanzia.
E poi non è vero che tutti i ricordi sono svaniti, reclusi in cassetti della memoria di cui non si trovano più le chiavi: ci sono ancora quelli lucidi delle infermiere, educatrici e operatrici varie della struttura, le cui voci all’interno del docufilm li riportano alla luce con entusiasmo e passione. «Cercavamo sempre di mantenere le distanze – dicono – ma poi inevitabilmente ci affezionavamo.»
Insomma, lì, in quel centro fatto di pianti, latte, pannolini e primi passi, si sono creati ricordi e identità, si è creata una strana comunità: forse allora sarebbe più corretto definirlo un luogo ai margini, liminare, come lo avevamo definito prima.
Il tema dell’identità: un’origine a pezzi
Ma, ovviamente, il docufilm ci parla anche della tematica dell’identità di questi bambini, oggi 40/50/60/70enni, che continuano a fare i conti con un’identità monca: che sia stata da sempre consapevolmente lacunosa, per chi è cresciuto con la contezza di essere stato abbandonato; o che sia stata frantumata in età adulta, con la scoperta talvolta casuale di essere stato adottato.
In ogni caso, dalle loro storie, emerge sempre il dolore di chi si trova a convivere con un’origine a pezzi, spezzata da tante domande, dubbi e questioni.
Chi erano i miei genitori? Perché mi hanno abbandonato? Dove sono ora? Sono frutto di un amore, sia pure clandestino, oppure di una violenza? I miei genitori vorranno conoscermi o è troppo tardi?
Questi sono solo alcuni degli interrogativi esistenziali che tormentano gli ex-bambini del brefotrofio.
In Italia vige una legge per cui i bambini non riconosciuti alla nascita possono conoscere l’identità dei propri genitori biologici solo al compimento dei cento anni di età: in pratica una grande tutela per la privacy dei genitori biologici, ma per il figlio una condanna a un vuoto che non riesce a essere riempito.
A partire da questa legge, era stato tratto un film del 2023 per la regia di Alessandro Bardani, Il più bel secolo della mia vita, con Sergio Castellitto e Valerio Lundini.
Con questa legge si confrontano anche gli ex-bambini del brefotrofio di Bari: alcuni di loro sono riusciti ad aggirarla e a scoprire così l’identità della madre. Le conseguenze della scoperta e del successivo contatto non sono state sempre semplici da affrontare, ma certamente utili a dare una forma più precisa a quelle che erano solo un magma indistinto di ipotesi.
Identità indefinite ma legate
Torniamo su questo titolo, Fratelli di culla: molte di queste identità rimangono ancora indefinite, ma la comunanza di questa condizione le lega e ne lenisce in parte la solitudine.
Il merito di questo docufilm, in conclusione, è che ci regala delle storie personali che toccano corde universali. Il nostro augurio è che riesca ad avere presto una distribuzione in sala in tutto il territorio nazionale.
Emanuela Macci