C’è una luce particolare che avvolge Piazza San Lorenzo al tramonto. Non è solo quella del sole che cala dietro la loggia del Palazzo dei Papi, ma anche quella degli sguardi, delle attese, delle chiacchiere piene di aspettative del pubblico prima che inizi un film. È la magia del Tuscia Film Fest, che ogni anno trasforma il centro di Viterbo in un’arena viva e partecipe. Un luogo dove il cinema non si guarda soltanto, ma si condivide.
La serata di apertura dedicata a Paternal Leave — presentato alla Berlinale 2025 — è stata tutto questo. Un film che entra in punta di piedi ma lascia un segno potente. Che parla di legami familiari senza mai cadere nella retorica. Una pellicola che ha saputo coinvolgere la piazza con la sua delicatezza ruvida, fatta di silenzi, corpi e parole sussurrate. Un racconto che non cerca facili spiegazioni, ma affida alle emozioni la responsabilità di restare.
Il linguaggio: il terzo protagonista
In Paternal Leave, il linguaggio è molto più di uno strumento narrativo: è il terzo protagonista. Il film si muove tra inglese, tedesco e italiano, restituendo quella sensazione di distanza e frustrazione che si prova quando non si riesce a dire ciò che si prova. Si fa simbolo della difficoltà di comunicare tra i due protagonisti: Leo (Juli Grabenhenrich) e Paolo (Luca Marinelli).
In questa storia di una figlia quindicenne che vive in Germania e va alla ricerca del padre, che abita in Italia e che non ha mai conosciuto, le parole non bastano, e spesso diventano ostacoli. Ma proprio in questo disordine linguistico emerge la verità dei silenzi, dei piccoli gesti, degli sguardi. È un uso sapiente e doloroso della lingua, che diventa specchio dell’incomunicabilità e, al tempo stesso, strumento di ricerca di contatto.
L’energia autentica della protagonista
Juli Grabenhenrich è una rivelazione. Al suo esordio assoluto come attrice, regge il peso emotivo del film con una forza disarmante. La sua è una presenza viscerale. È nel suo sguardo che si legge il dolore trattenuto, nei suoi silenzi si intravede la rabbia, il bisogno d’amore, il senso di smarrimento.
Non interpreta un personaggio: lo abita. E questa autenticità arriva dritta al pubblico. È raro che una prima prova attoriale risulti così credibile e intensa, ma qui accade. Anche per merito della regia, che la accompagna senza forzarla, lasciandole il tempo e lo spazio per esprimersi.
Dialogo: il cuore pulsante del festival
Se il film ha emozionato, il dialogo che ne è seguito ha fatto vibrare la piazza. Ed è proprio questo l’aspetto più prezioso del Tuscia Film Fest: non fermarsi alla visione, ma aprirsi al confronto.
Il pubblico ha potuto ascoltare un Luca Marinelli che ha raccontato il momento in cui ha letto per la prima volta la sceneggiatura, confessando quanto la storia lo abbia colpito subito per la sua autenticità. Ha condiviso anche l’esperienza di lavorare con sua moglie, Alissa Jung, qui al suo debutto alla regia.
Alissa Jung ha raccontato la genesi del film, descrivendo il lavoro sul set e il rapporto costruito con gli attori, particolare con Juli. Guidare un’attrice esordiente, che non sa nulla di recitazione, non è di certo facile. Ma Juli si è donata al cento per cento per il personaggio, con un’energia tale da lasciarla completamente prosciugata a fine giornata.
La regista ha raccontato come, a tratti, anche un attore esperto come Luca Marinelli abbia faticato a stare dietro a quella forza travolgente. Esperienza e istinto si sono così fusi in una coppia padre/figlia capace di tirare fuori ogni emozione dalla sceneggiatura.
Con affetto e gratitudine, Alissa Jung ha poi proposto al pubblico un applauso virtuale per Juli Grabenhenrich, assente fisicamente ma presenza centrale nella riuscita del film.
Un cinema che resta in una piazza viva di cinema
Paternal Leave è una storia che si insinua piano, che chiede allo spettatore di ascoltare e non giudicare. È un cinema vero, che apre spazi di riflessione.
E il Tuscia Film Fest si conferma ancora una volta come luogo privilegiato d’incontro per parlare di autenticità. Un luogo dove il cinema è vissuto come esperienza collettiva.
Noemi Giacci