In occasione della 5° edizione del Festival del cinema tedesco, tenutosi a Roma dal 20 al 23 marzo, Piermaria Rasetti di CineUni ha avuto l’occasione di intervistare Jannis Alexander Kiefer il regista di Another German Tank Story, il film d’apertura del festival.
Ringraziamo gli organizzatori dell’evento, German Films in collaborazione con l’Ambasciata tedesca, il Goethe-Institut Rom e L’Accademia Tedesca Roma Villa Massimo.
L’intervista
Piermaria Rasetti: Buongiorno Jannis, grazie mille per questa intervista! Prima di tutto, come stai? Another German Tank Story è uscito l’anno scorso in Germania. Come sta andando?
Jannis Alexander Kiefer: Sto bene, grazie. E sì, il film è uscito l’anno scorso. È il mio primo lungometraggio. Abbiamo avuto la première la scorsa estate e da allora stiamo partecipando ad un tour promozionale nei vari festival in Germania e all’estero, quindi è ancora tutto in corso. Attualmente la gestione per la distribuzione in sala è un po’ stressante ma sono naturalmente molto felice e orgoglioso poiché si tratta di un film prodotto come tesi di laurea, non è solo il mio primo lungometraggio. E non è così comune avere una distribuzione su un film nato per una tesi di laurea, perciò sì, ne sono orgoglioso.
PR: Bene, partiamo con le vere domande. Cosa ha ispirato il concept di questo film? Considerando gli altri tuoi lavori c’è un fil rouge che collega la classe dei lavoratori, gli ambienti rurali e certe atmosfere senza tempo, oltre che l’estetica di un passato non meglio definito e carri armati ricorrenti, come nel corto Good german work. È una scelta puramente estetica o ha un bersaglio definito? È riconoscibile una certa satira dei costumi e dei pensieri di oggi. C’è o ci può essere una lettura politica?
JK: Hai fatto delle buone ricerche, questo è ciò che sono, di fatto. Sono cresciuto in campagna assieme ai nonni, eravamo vicini ad una grossa città ma in pratica vivevo in un paesino e per questo mi sento molto vicino alla classe operaia, specialmente quelli che lavorano nell’industria cinematografica tedesca.
La maggior parte dei film oggi parlano di persone del mondo accademico, intellettuali, problemi tipici delle metropoli, conflitti di scala mondiale ma io ho sempre scritto, per i miei corti e per questo lungometraggio, e tuttora per il mio prossimo progetto, riguardo persone invisibili nel cinema tedesco, come la classe operaia e chi vive lontano dalle città più grandi o dai luoghi turistici più vistosi.
La commedia è un altro elemento comune, ad esempio, ma non cercavo una commedia becera, di quelle rumorose e mainstream. Ho provato a cercare il mio specifico linguaggio cinematografico, legando vari temi più seri: ad esempio la solitudine vissuta dai giovani che vivono in località dimenticate non è un tema così esilarante ma cerco comunque di rielaborare quei temi per creare intrattenimento.
Cerco di suscitare domande concrete nel pubblico ma ovviamente considero anche l’aspetto dell’intrattenimento.
PR: In questo film, a mio parere, ci sono molti autori impliciti, Wes Anderson e Roy Anderson ad esempio. Ho notato anche atmosfere simili a The banshee of irishing, di Martin McDonagh o a molti film di Aki Kaurismaki.
In merito a quest’ultimo è interessante come sia Kaurismaki, nei suoi ultimi film, che tu, con il tuo, abbiate declinato un’estetica inevitabilmente antica con l’attuale presente.
Hai già diretto cortometraggi premiati all’estero ma questo è il tuo primo lungometraggio. Vedo già un segno riconoscibile, a mio parere, un’estetica distintiva, come di un autore al suo quinto o sesto film, per intenderci. Ho percepito anche in parte i lavori di Ruben Östlund, come Triangle of sadness, ma declinati in modo opposto, raccontando le vite dei più umili, in un ambiente immerso nel nulla, dove il tempo sembra essersi fermato. Come hai definito l’estetica dei tuoi lavori? Si tratta di uno stile che tu metti in pratica quando ne avverti la necessità, pensi che le tue storie verranno messe in scene sempre in questo modo (alla Wes Anderson, per capirci) oppure sono le singole storie a richiedere quel tipo di estetica, che potrebbe cambiare se ti troverai di fronte ad altre narrazioni?
JK: Domanda complessa, ma interessante. Naturalmente noi tutti veniamo ispirati da altri autori, vedo molti film chiaramente, come tanti di noi, e a volte penso “Wow, hanno diretto un tale capolavoro…io non potrò mai fare un film del genere perché esiste già” ma d’altra parte devi comunque agire in questo modo. Intendo dire che non è un segreto che ogni regista si ispira a qualche altro maestro ma per me è importante sapere che nessuno guarda il film pensando che io abbia copiato qualcun altro.
Se uno spettatore mi dicesse “Hai fatto un film alla Roy Anderson o un film alla Wes Anderson” mi dispiacerebbe, perché per me è molto importante definire il mio personale linguaggio.
Tu hai probabilmente visto alcuni dei miei corti. Naturalmente ne ho fatti molti altri ma tu avrai visto quelli più belli o quelli che hanno vinto qualche premio. Ovviamente ho fatto anche brutti corti che non sono stati distribuiti per questa ragione o perché semplicemente non adatti a certi festival.
In ogni caso ho avuto la possibilità di provare diversi stili e diverse estetiche. In generale io non analizzo molto l’estetica del film, per me è più un qualcosa che senti dentro, di viscerale: cosa ti sembra più giusto per te, per il tuo protagonista o per la tua storia. Non vedo la produzione di un film come un processo tecnico o analitico, è più un “come ti fa sentire?” e in questo modo direi che ho trovato un mio stile e così probabilmente ho intenzione di fare il mio prossimo film, forse non identico ma simile.
PR: Ora un paio di domande più leggere, più pop e abbiamo finito. Il film, ricordiamolo, è stato presentato in apertura alla quinta edizione del festival del cinema tedesco a Roma. Come ti trovi qui a Roma? Qual è il tuo rapporto con il cinema italiano?
JAK: Ciò che amo di più del cinema italiano è che nella storia del vostro cinema ma anche ai giorni nostri ci sono moltissimi registi che parlano della classe operaia. Non sono bravo con i nomi ma avete anche tanti film che parlano di gente ricca a Roma ma quelli non mi interessano.
Ieri in apertura del festival – ed è così in qualunque paese io presenti il mio film, ogni volta che c’è una premiere nazionale – ero molto nervoso; non so come la gente reagirà. In Germania ho fatto diverse proiezioni perciò ormai so come gli spettatori tedeschi vedono i miei film, cosa gli piace e cosa no, ma ieri ero nervoso e dopo la proiezione ero così felice che il pubblico avesse apprezzato il mio lavoro. Non hanno percepito il film come snob o idiota, piuttosto come enigmatico; ho ricevuto tanti complimenti per questo e sarò anche più tranquillo per la seconda proiezione che ci sarà.
PR: Qual è il primo consiglio, quello fondamentale, che daresti ad una persona giovane che vuole fare il tuo mestiere?
JAK: Sembrerà scontato ma fidarsi delle propria idea; nella mia famiglia non c’era alcun interesse per il cinema o per l’arte, per la televisione in generale, perché vivevo in campagna, lontano da quel mondo e ci ho messo davvero tanto a capire che potevo fidarmi di me stesso e che, se avessi provato, avrei potuto realizzare un film. Ci ho messo davvero tanto a trovare il coraggio necessario a realizzare un corto e a fidarmi di una mia idea.
PR: Grazie ancora, Jannis, e buona fortuna con la tua carriera!
Intervista e traduzione a cura di Piermaria Rasetti